— Dare scaccomatto all'Autarca, sieur?
— Sì, così può andare, ma quella è solo una mossa, e non lo scopo finale. Tu vieni dalla Cittadella. Come puoi notare, so qualcosa dei tuoi viaggi e della tua storia. La Cittadella è la grande fortezza dei tempi andati, perciò devi possedere un forte senso del passato, hai mai pensato che una chiliade fa l'umanità era molto più felice e più ricca di adesso?
— Tutti sanno — risposi — che rispetto al glorioso passato siamo miseramente decaduti.
— E quello che era allora può tornare a esistere. Gli uomini di Urth che viaggiano fra le stelle e balzano da una galassia all'altra, padroni delle figlie del sole.
La castellana Thea, che doveva aver ascoltato Vodalus pur non dandolo a vedere, mi fissò e disse, con voce dolce e carezzevole: — Sai come venne ribattezzato il nostro mondo, torturatore? Gli uomini dell'aurora arrivarono sul rosso Verthandi, che allora si chiamava Guerra. E pensando che avesse un suono sgradevole e scoraggiasse gli altri che avrebbero dovuto seguirli, gli cambiarono nome e lo ribattezzarono Presente. Nella loro lingua era un gioco di parole, perché significava tanto Ora quanto Dono. O almeno, una volta uno dei nostri istitutori lo spiegò a me e a mia sorella, nonostante non riesca a capire come un linguaggio possa creare tanta confusione.
Vodalus l'ascoltava con impazienza, come se fosse troppo cortese per interromperla.
— Allora altri, che avrebbero voluto trascinare un popolo nel mondo abitabile più interno per motivi loro, presero parte al gioco e chiamarono quel mondo Skud, il Mondo del Futuro. Così il nostro divenne Urth, il Mondo del Passato.
— Sono convinto che ti stai sbagliando in questo — disse Vodalus. — So da fonti attendibili che il nostro mondo si è sempre chiamato in tal modo fino dai tempi più antichi. Tuttavia, il tuo errore è talmente incantevole che preferirei che avessi ragione tu.
Thea sorrise e Vodalus si voltò nuovamente verso di me. — Nonostante non riesca a spiegare il motivo per cui Urth si chiama così, il racconto della mia cara castellana coglie il punto vitale della questione. A quei tempi l'umanità viaggiava con le sue navi da un mondo all'altro e li dominava tutti e vi edificava le città dell'Uomo. Quelli furono i grandi tempi della nostra razza, quando i padri dei padri dei nostri padri lottavano per controllare l'universo.
S'interruppe e dal momento che sembrava aspettarsi qualche commento da parte mia, dissi: — Sieur, da allora la nostra sapienza è fortemente diminuita.
— Ah, adesso hai fatto centro. Eppure, nonostante la tua perspicacia, hai sbagliato. No, non è la nostra sapienza a essere diminuita, ma la nostra potenza. Gli studi sono andati avanti senza soste, ma nonostante gli uomini abbiano imparato tutto quanto è necessario al dominio, l'energia del mondo si è esaurita. Ora sopravviviamo, precariamente, sulle rovine di quelli che ci hanno preceduto. Mentre alcuni sfrecciano nell'aria coprendo anche diecimila leghe al giorno, noialtri strisciamo sulla superficie di Urth incapaci di andare da un orizzonte all'altro prima che quello occidentale abbia iniziato a velare il sole. Poco fa tu hai suggerito di dare scaccomatto a quel pazzo miagolante che è l'Autarca. Prova a immaginare due autarchi... due grandi potenze in lotta per il potere. Il bianco cerca di lasciare le cose come stanno, il nero vuole riportare l'Uomo sulla strada della supremazia. Ho definito «nera» questa fazione solo per caso, ma conviene ricordare che è di notte che si vedono meglio le stelle, mentre di giorno nella luce rossa del sole esse risultano quasi del tutto invisibili. Ora, fra queste due parti, quale ti senti disposto a servire?
Il vento stormiva fra le piante e mi parve che tutti i commensali si fossero ammutoliti per ascoltare Vodalus e aspettare la mia risposta. — La nera, sicuramente — dissi.
— Bene! Ma dal momento che sei una persona assennata devi capire che la strada davanti a noi non è facile. Quelli che avversano i cambiamenti non devono far altro che starsene seduti a covare i loro scrupoli in eterno. Noi dobbiamo fare tutto. Noi dobbiamo osare tutto!
Intorno a noi la gente aveva ricominciato a mangiare e a parlare. Abbassai la voce, così che solo Vodalus potesse sentirmi. — Sieur, c'è qualcosa che non ti ho detto. Non oso nascondertelo ancora per timore che tu mi reputi un uomo senza fede.
Vodalus era più esperto di me in fatto di intrighi e volse la testa dall'altra parte prima di rispondere, facendo finta di mangiare. — Di cosa si tratta? Parla.
— Sieur — dissi, — sono in possesso di una reliquia, l'oggetto noto come l'Artiglio del Conciliatore.
Mentre parlavo stava addentando la coscia di un volatile arrostito. Lo vidi bloccarsi; volse lo sguardo verso di me senza muovere la testa.
— Lo vuoi vedere, sieur? È molto bello, e lo tengo nascosto nello stivale.
— No — bisbigliò Vodalus. — Sì, forse, ma non qui... No, è meglio di no.
— A chi lo dovrei dare, allora?
Vodalus deglutì. — Degli amici di Nessus mi avevano informato della sua scomparsa. Così lo hai tu. Devi tenerlo fino a quando non riuscirai a sbarazzartene. Non cercare di venderlo... lo riconoscerebbero immediatamente. Nascondilo da qualche parte o gettalo in un pozzo, se è necessario.
— Ma è certamente molto prezioso, sieur.
— È inestimabile, come dire che non ha valore. Noi due siamo uomini assennati. — Nonostante quelle parole, la sua voce aveva una sfumatura di timore. — Ma la massa crede che sia sacro e che sia in grado di operare miracoli di ogni genere. Se ne venissi in possesso io, si direbbe che sono un profanatore e un nemico del Teolegumeno. I nostri maestri mi accuserebbero di tradimento. Devi dirmi...
In quel momento, un uomo che non avevo notato prima sopraggiunse correndo con urgenza. Vodalus si alzò e si appartò con lui di qualche passo: aveva l'aspetto di un maestro di scuola, pensai, che parlasse con un piccolo allievo, dato che la testa del messaggero gli arrivava a malapena alla spalla.
Continuai a mangiare, convinto che presto avrebbe fatto ritorno a tavola; invece, dopo aver interrogato a lungo il messaggero, andò via insieme a lui, scomparendo fra i tronchi enormi delle piante. Uno alla volta, anche i commensali si alzarono e alla fine rimanemmo solo io, Jonas, la bella Thea e un altro uomo.
— Voi dovete unirvi a noi — disse infine Thea con la sua voce carezzevole. — Ma ancora non conoscete le nostre abitudini. Vi occorre del denaro?
Io esitai un istante, ma Jonas intervenne: — Il denaro è sempre gradito, Castellana, come le sciagure di un fratello maggiore.
— Da oggi in poi, ci sarà una parte anche per voi in tutto quello che prendiamo. Quando farete ritorno, vi verrà consegnato il tutto. Nel frattempo posso dare a ciascuno di voi una borsa, in modo che possiate riprendere il viaggio.
— Così dobbiamo andare? — domandai.
— Non lo sapevate? Vodalus vi spiegherà tutto a cena.
Ero convinto che il pasto appena terminato fosse l'ultimo della giornata, e quel pensiero dovette trasparire dalla mia espressione.
— Ci sarà una cena questa sera, quando la luna splenderà — disse Thea. — Qualcuno verrà a chiamarvi. — Quindi citò una strofa:
Mangia all'alba per aprire gli occhi,
Mangia a mezzogiorno per diventare forte,
Mangia a sera e parla a lungo,
Mangia di notte, se vuoi essere saggio...
«Ma ora Chuniald, il mio servitore, vi accompagnerà dove potrete riposare.
L'uomo, che fino a quell'istante era rimasto in silenzio, si alzò e disse: — Seguitemi.
Io dissi a Thea: — Vorrei parlarti, castellana, quando ci sarà più tempo. Ho notizie della tua compagna di studi.
Lei comprese che non stavo scherzando e io mi accorsi che aveva capito. Poi seguimmo Chuniald tra le piante, per una lega o forse più, e infine giungemmo alla riva erbosa di un ruscello. — Aspettate qui — disse Chuniald. — Dormite, se potete. Non verrà nessuno fino al tramonto.
— E se ce ne andassimo? — domandai.
— Nella foresta vi sono molte persone a conoscenza dell'interesse che il mio signore nutre per voi — rispose Chuniald. Si voltò e se ne andò.
Allora raccontai a Jonas tutto quello che era accaduto accanto alla tomba aperta, esattamente come l'ho descritto a voi.
— Capisco — disse Jonas alla fine, — per quale motivo tu voglia unirti a questo Vodalus. Ma devi capire che io sono amico tuo e non suo. Quello che io desidero è ritrovare la donna che tu chiami Jolenta. Tu intendi servire Vodalus e poi proseguire verso Thrax e iniziare una nuova vita in esilio, cancellando in tal modo la macchia che sostieni di aver causato alla tua corporazione... anche se non riesco a capire come una cosa simile possa macchiarsi. E vuoi ritrovare la donna di nome Dorcas e fare pace con quella di nome Agia, restituendo nel frattempo qualcosa che noi conosciamo alle donne dette pellegrine.
Finito quell'elenco, Jonas sorrise e io scoppiai a ridere.
— E sebbene tu mi faccia venire in mente il kestrel del vecchio, che rimase appollaiato su un trespolo per vent'anni e poi volò in tutte le direzioni, ti auguro di riuscire a realizzare tutti i tuoi desideri. Ma è possibile che una o l'altra di tali aspirazioni ostacoli le rimanenti, spero che tu te ne sia reso conto.
— Stai dicendo delle cose giuste — riconobbi. — Mi sto sforzando di fare tutte queste cose e, sebbene tu non ci crederai, mi sto dedicando completamente a ciascuna di esse. Comunque devo ammettere che non tutto sta procedendo secondo i miei desideri. Le mie contrastanti ambizioni mi hanno portato sotto queste piante, dove sono un viandante senza casa. Mentre tu, che persegui con ostinazione un obicttivo onnipotente... guarda dove sei!
Chiacchierando trascorremmo i turni di guardia pomeridiani. Gli uccelli cinguettavano sopra le nostre teste ed era molto piacevole stare in compagnia di un amico come Jonas, fedele, ragionevole, discreto, dotato di saggezza, di spirito e di accortezza. Allora non conoscevo ancora la sua storia, ma avevo intuito che non era stato del tutto sincero a proposito del suo passato, perciò insistevo, in maniera indiretta, perché si confidasse. Venni a sapere, o meglio credetti di capire, che suo padre era stato un artigiano; che era cresciuto con entrambi i genitori nel modo che si potrebbe definire normale anche se, in realtà, è piuttosto raro; che proveniva da una piccola cittadina costiera del sud, anche se l'ultima volta che vi aveva fatto ritorno l'aveva trovata talmente cambiata da decidere di andarsene di nuovo.
Quando ci eravamo incontrati alle Mura, basandomi sul suo aspetto gli avevo attribuito una decina d'anni più di me. Da quello che mi disse quel pomeriggio, e dalle poche notizie che mi aveva dato in precedenti conversazioni, dedussi che doveva essere leggermente più vecchio; aveva letto moltissime cronache del passato e io ero troppo ingenuo e privo di cultura, nonostante la fatica del Maestro Palaemon e di Thecla, per pensare che qualcuno che non avesse ancora raggiunto la mezza età potesse sapere tutte quelle cose. Era cinicamente distaccato nei confronti dell'umanità e ciò mi fece supporre che conoscesse piuttosto bene il mondo.
Stavamo ancora parlando quando vidi la figura elegante della Castellana Thea muoversi fra le piante a una certa distanza. Diedi una gomitata a Jonas e restammo in silenzio a guardarla. Era diretta verso di noi ma non ci aveva ancora visti, e avanzava alla cieca, come fanno coloro che stanno seguendo delle indicazioni. Di tanto in tanto un raggio di sole le colpiva il viso, il cui profilo era talmente simile a quello di Thecla da straziarmi il cuore. Anche l'andatura era uguale a quella di Thecla, il passo orgoglioso del fororaco che non dovrebbe mai essere rinchiuso in una gabbia.
— Deve appartenere a una famiglia veramente antica — sussurrai a Jonas. — Guardala! Sembra una driade. È flessuosa come un salice.
— Queste antiche famiglie in realtà sono le più recenti di tutte — rispose Jonas. — Nei tempi antichi non esisteva niente di simile.
Non penso che Thea fosse abbastanza vicina da distinguere le nostre parole, ma sicuramente udì la voce, perché guardò verso di noi. Le facemmo un cenno e lei accelerò il passo, senza correre, ma camminando in fretta quanto le sue lunghe gambe le permettevano. Ci alzammo e quando lei ci raggiunse ci sedemmo ancora; lei si accomodò sulla sciarpa che aveva steso a terra, rivolta al ruscello.
— Mi hai detto che volevi parlarmi di mia sorella. — La voce la faceva sembrare più normale, e seduta era poco più alta di me.
— Sono stato il suo ultimo amico — risposi. — Mi aveva detto che avrebbero fatto pressione su di te perché tu convincessi Vodalus a consegnarsi in cambio della sua liberazione. Sapevi che era stata presa?
— Eri il suo servitore? — Thea sembrò valutarmi con lo sguardo. — Sì, avevo sentito dire che era stata portata in quel posto orribile, fra i tuguri di Nessus, dove so che è morta molto in fretta.
Ripensai a quanto avessi aspettato davanti alla porta della sua cella prima che ne fuoriuscisse il filo di sangue scarlatto, ma annuii.
— Come fu arrestata... lo sai?
Thecla me ne aveva parlato a lungo e io riferii tutti i particolari senza omettere niente.
— Capisco — disse Thea, e restò in silenzio per un po', guardando l'acqua corrente. — Sento la mancanza della corte, naturalmente. Sentir parlare di quella gente e del fatto che venne avvolta in un arazzo quando fu portata via, cosa che succedeva spesso, mi ricorda i motivi per cui me ne sono andata.
— Penso che di tanto in tanto anche lei ne sentisse la mancanza — dissi. — Per lo meno, ne parlava spesso. Ma mi aveva detto che se mai fosse stata liberata, non vi avrebbe più fatto ritorno. Parlava della casa di campagna di cui portava il titolo e mi diceva che l'avrebbe arredata in maniera del tutto diversa e vi avrebbe organizzato pranzi e cacce per le personalità più importanti della regione.
Il volto di Thea si contrasse in un sorriso amaro. — Ormai ne ho avuto abbastanza, della caccia, per dieci vite intere. Ma quando Vodalus diventerà Autarca, io sarò la sua consorte. Allora passeggerò nuovamente vicino al Pozzo delle Orchidee e cinquanta figlie di esultanti mi intratterranno con le loro canzoni. Ma adesso basta: ci vorranno almeno alcuni mesi, ancora. Per il momento ho... quello che ho.
Guardò tristemente me e Jonas e si alzò con estrema grazia, accennandoci di rimanere seduti. — Mi ha fatto piacere sentir parlare della mia sorellastra. La casa a cui hai accennato poco fa adesso è mia, sai, anche se non posso prenderne possesso. Per ringraziarti, ti metterò in guardia sulla cena che consumeremo tra poco. Mi sembra che tu non abbia colto le allusioni fatte da Vodalus. Le hai capite?
Jonas non disse niente, io scossi il capo.
— Affinché noi e i nostri alleati e maestri che aspettano nei territori sottostanti le maree trionfiamo, è necessario che apprendiamo tutto quanto è possibile apprendere del passato. Conosci l'alzabo analettico?
— No, Castellana — risposi, — ma ho sentito parlare di un animale che porta quel nome. Pare che sappia parlare, e che la notte si presenti dinnanzi alla casa in cui è morto un bambino e gridi perché lo facciano entrare.
Thea annuì. — Quell'animale è stato portato dalle stelle molto tempo fa, come tante altre cose che vennero portate a beneficio di Urth. È una bestia intelligente quanto un cane, forse anche meno, ma mangia le carogne e scava tombe, e dopo essersi nutrito di carne umana, per un certo tempo è in grado di capire il linguaggio e i costumi degli uomini. L'alzabo analettico si prepara con l'estratto di una ghiandola prelevata dal collo dell'animale. Capisci?
Dopo che Thea se ne fu andata, Jonas non mi guardò, né io lo guardai: sapevamo entrambi che cosa ci aspettava al banchetto di quella notte.
XI
THECLA
Dopo essere rimasti a sedere a lungo, o almeno così mi parve, anche se probabilmente non era passato più di qualche istante, non riuscii più a tollerare le mie sensazioni. Mi avvicinai al bordo del ruscello, mi inginocchiai sulla terra soffice e vomitai il pasto che avevo mangiato in compagnia di Vodalus. Quando il mio stomaco fu completamente vuoto, rimasi lì, tremante e scosso dai conati, a sciacquarmi il volto e la bocca mentre la corrente portava via il cibo e il vino semidigeriti che avevo rigettato.
Dopo essere riuscito a rialzarmi, tornai da Jonas e gli dissi: — Dobbiamo andare via.
Lui mi fissò come se provasse pietà di me, e penso che la provasse davvero. — Siamo circondati dai guerrieri di Vodalus.
— Vedo che tu non hai vomitato come ho fatto io. Ma hai sentito chi sono i loro alleati. E forse Chuniald ha mentito.
— Ho sentito le nostre guardie camminare fra le piante... non sono poi tanto silenziose. Tu hai la spada, Severian, e io ho un coltello, ma gli uomini di Vodalus sono armati di archi. Ho osservato che la maggior parte dei commensali ne possedeva uno. Possiamo cercare di nasconderci dietro i tronchi come gli aluatti...
Capii cosa volesse dire e commentai: — Gli aluatti vengono uccisi ogni giorno.
— Ma nessuno dà loro la caccia di notte. E fra meno di un turno di guardia sarà buio.
— Verrai con me se aspetterò fino ad allora? — Allungai la mano.
Jonas la strinse. — Severian, mio povero amico, mi hai raccontato di aver visto Vodalus e la Castellana Thea insieme a un altro uomo vicino a una tomba profanata. Non sapevi che cosa avessero intenzione di fare di ciò che avevano riesumato?
Lo avevo immaginato, naturalmente, ma all'epoca si era trattato di una certezza remota e apparentemente priva di importanza. — A quel punto mi resi conto di non avere nulla da dire; anzi, non riuscivo nemmeno a pensare a nulla, solo ad augurarmi che venisse presto la notte.
Gli uomini di Vodalus vennero a prenderci prima che sopraggiungesse l'oscurità; si trattava di quattro individui massicci che dovevano essere stati contadini e che erano armati di berdichi, più un quinto uomo che aveva l'aria di un armigero e che portava uno spadone da ufficiale. Probabilmente quei sudditi erano tra la folla davanti al podio al nostro arrivo; comunque, sembravano decisi a non correre rischi: ci circondarono con le armi pronte, mentre ci salutavano come amici e compagni. Jonas simulò disinvoltura e si mise a chiacchierare con loro mentre ci scortavano lungo i sentieri della foresta; io non riuscivo a distogliere la mente dalla prova che ci aspettava, e avanzavo come se fossi diretto alla fine del mondo.
Mentre eravamo in cammino, Urth distolse la faccia dal sole. Il chiarore delle stelle non riusciva minimamente a scalfire il fogliame, ma le nostre guide conoscevano tanto bene la strada che non rallentammo quasi mai. A ogni passo mi veniva da domandare se saremmo stati costretti a partecipare al pasto, ma sapevo già che rifiutando o anche solo esitando avrei distrutto la fiducia che Vodalus riponeva in me e avrei messo in pericolo la mia libertà e forse anche la mia vita.
Le nostre guardie, che inizialmente erano state riluttanti a rispondere alle battute scherzose di Jonas, diventavano sempre più gioviali man mano che la mia disperazione aumentava e giunsero a conversare come se fossero dirette a una bevuta o a un bordello. Eppure, per quanto riuscissi a cogliere la nota d'anticipazione presente nelle loro voci, la maggior parte delle frasi irridenti che pronunciavano mi erano incomprensibili come per un bambino lo sono quelle libertine.
— Andrai lontano, questa volta? Annegherai di nuovo? — disse l'uomo che stava in fondo alla fila, una voce disincarnata nel buio.
— Per Erebus, sprofonderò tanto che non mi rivedrai più fino al prossimo inverno.
Una voce che riconobbi essere quella dell'armigero chiese: — Qualcuno di voi l'ha vista di nuovo? — Gli altri avevano parlato con ostentazione, ma nelle parole di quell'uomo colsi una specie di avidità che non avevo mai avvertito prima. Pareva un viaggiatore sperduto che domanda notizie della patria.
— No, Valdgravio.
— Alcmund dice che va bene, che non è vecchia ma neppure troppo giovane — aggiunse un'altra voce.
— Non sarà una nuova tribade, spero. — Non...
La voce si interruppe, o forse io smisi di farvi caso. Avevo avvistato un barlume fra le piante.
Dopo alcuni passi vidi le torce e udii il rumore di molte voci. Qualcuno, più avanti, ci intimò di fermarci, e l'armigero avanzò a dare sottovoce la parola d'ordine.
Mi ritrovai seduto a terra con Jonas alla mia destra e una bassa sedia di legno intagliato alla mia sinistra. L'armigero si era messo alla destra di Jonas e gli altri presenti, come se fossero stati in attesa del nostro arrivo, si erano disposti in cerchio; nel centro una fumosa lanterna arancione pendeva dai rami di un albero.
Solo un terzo dei partecipanti all'udienza nella radura era presente in quel momento, e a giudicare dai vestiti e dalle armi dedussi che si trattava delle persone del rango più elevato, forse in compagnia dei combattenti favoriti. C'erano quattro o cinque uomini per ogni donna, ma le donne apparivano bellicose quanto i loro compagni e addirittura più smaniose che il banchetto avesse inizio.
Dopo una breve attesa, Vodalus uscì teatralmente dall'oscurità e attraversò il cerchio. Tutti i presenti si levarono in piedi e si rimisero a sedere quando Vodalus si fu accomodato nella sedia accanto a me.
Quasi subito un servitore che indossava la livrea di una grande casata si fece avanti e si fermò al centro del cerchio, sotto la lanterna arancione. Portava un vassoio sul quale vidi una grande bottiglia, una più piccola e un calice di cristallo. Si levò un brusio... senza parole, il rumore di cento piccoli rumori soddisfatti, di respiri affannosi e di schiocchi di lingua sulle labbra. L'uomo con il vassoio rimase immobile fino a quando i rumori si spensero, quindi avanzò verso Vodalus a passi misurati.
Alle mie spalle, la dolce voce di Thea disse: — L'alzabo di cui ti ho parlato si trova nella bottiglia più piccola. L'altra contiene un composto di erbe che calma lo stomaco. Bevi un sorso abbondante della mistura.
Vodalus si volse a guardarla stupito.
Thea entrò nel cerchio, passando fra Jonas e me, quindi fra Vodalus e l'uomo con il vassoio, infine prese posto alla sinistra di Vodalus. Vodalus si chinò verso di lei: fece per dirle qualcosa, ma dopo aver constatato che l'uomo con il vassoio aveva già iniziato a rimestare il contenuto delle bottiglie entro il calice, sembrò concludere che non era il momento opportuno.
Il vassoio venne mosso in tondo per imprimere al liquido un leggero movimento circolare. — Molto bene — disse Vodalus. Afferrò il calice con entrambe le mani e se lo portò alle labbra. Poi lo passò a me. — Come ti ha spiegato la castellana, ne devi bere un sorso abbondante. Se ne ingoi di meno, non basterà e non ci sarà più comunione. Se ne prendi troppo, non ti darà alcun beneficio e la droga, che è preziosissima, andrà sprecata.
Bevvi come mi era stato ordinato. Il miscuglio era amaro come veleno e dava una sensazione di freddo e di fetido; mi fece tornare in mente un lontanissimo giorno invernale, nel quale mi era stato ordinato di pulire la tubatura esterna da cui fuoriuscivano i rifiuti dell'alloggio degli artigiani. Per un istante credetti che il mio stomaco si sarebbe ribellato, come era già successo in riva al fiume, anche se in verità non avevo più niente da vomitare. Mi sentii soffocare, ma ingoiai il liquido e passai il calice a Jonas, accorgendomi che la mia bocca si stava rapidamente riempiendo di saliva.
Anche Jonas incontrò le mie stesse difficoltà, o anche di più, ma infine riuscì a bere e diede il calice al valdgravio che aveva guidato le nostre guardie. Continuai a seguire il recipiente con lo sguardo, mentre veniva fatto passare lentamente intorno al cerchio. Il liquido in esso contenuto bastò per una decina di persone, quindi l'uomo dalla livrea lucido l'orlo, lo riempì nuovamente e tutto riprese.
A poco a poco, l'uomo parve perdere la forma solida per diventare una silhouette, una figura colorata e intagliata nel legno. Mi ricordai delle marionette che avevo visto in sogno la notte in cui avevo diviso il letto con Baldanders.
Anche il cerchio del quale facevo parte, che sapevo essere composto da trenta o quaranta persone, pareva ritagliato da un foglio di carta e ripiegato come una corona-giocattolo. Vodalus alla mia sinistra e Jonas alla mia destra erano ancora normali, ma l'armigero mi appariva già semidipinto, come Thea.
Quando l'uomo con la livrea giunse a lei, Vodalus si alzò e agilmente, come sospinto dalla brezza notturna, si incamminò verso la lanterna arancione. Sembrava molto distante in quella luce, e tuttavia io riuscivo a sentire il suo sguardo, come si sente il calore di un braciere che arroventa i ferri.
— Prima della comunione deve essere profferito un giuramento — disse, e le piante sopra di noi annuirono solennemente. — Per la seconda vita che state per ricevere, giurate che non tradirete mai coloro che sono qui? E che obbedirete, senza esitazioni e senza scrupoli, fino alla morte se necessario, a Vodalus come vostro capo prescelto?
Tentai di annuire come le piante, e quando mi resi conto che non era sufficiente, dissi: — Acconsento. — E Jonas disse: — Sì.
— E giurate che obbedirete, come se si trattasse dello stesso Vodalus, a ogni persona che Vodalus porrà sopra di voi?
— Sì. — Sì.
— E che anteporrete questo giuramento a tutti gli altri pronunciati prima e dopo?
— Sì — rispose Jonas.
— Sì — risposi io.
La brezza non spirava più. Era come se uno spirito agitato avesse presenziato a quel raduno e poi fosse svanito all'improvviso. Vodalus era nuovamente sulla sedia vicino a me. Si piegò per parlarmi; se la sua voce era annebbiata, non me ne accorsi, ma qualcosa nel suo sguardo mi disse che era sotto l'effetto dell'alzabo quanto me.
— Non sono un erudito — iniziò. — Ma so che secondo alcuni le cause più nobili sono unite ai mezzi più vili. Le nazioni vengono unite dal commercio e l'avorio e i legni preziosi degli altari e dei reliquiari sono tenuti insieme dagli intestini bolliti di animali ignobili; gli uomini e le donne sono uniti dagli organi di escrezione. Nello stesso modo siamo uniti voi e io... Nello stesso modo saremo tutti uniti fra qualche istante a un essere mortale che per breve tempo rivivrà intensamente in noi grazie agli effluvi estratti dalle ghiandole di una bestia fra le più immonde. Così i fiori sbocciano dal fango.
Io annuii.
— Questo ci è stato insegnato dai nostri alleati, coloro che aspettano che l'uomo venga nuovamente purificato e sia pronto a unirsi a loro nella conquista dell'universo. Venne portato dagli altri per scopi immondi che essi intendevano tenere segreti. Te ne sto parlando perché tu, quando andrai alla Casa Assoluta, probabilmente li incontrerai: quelli che la gente comune chiama cacogeni e che gli uomini di cultura chiamano extrasolari o ieroduli. Dovrai stare in guardia per non attirare la loro attenzione; se ti osserveranno attentamente capiranno, da certi segni, che hai provato l'alzabo.
— La Casa Assoluta? — Sebbene per un solo istante, il pensiero dissolse le nebbie della droga.
— Sì. Là c'è un mio seguace al quale devo trasmettere alcune istruzioni e ho saputo che la compagnia di commedianti di cui facevi parte vi sarà ammessa per un tiaso fra pochi giorni. Ti riunirai a loro e approfitterai dell'occasione per consegnare quello che ti darò... — Vodalus si frugò nella tunica, — ...a chi ti dirà: Il veliero pelagico avvista la terraferma. E se dovessi ricevere in cambio qualche messaggio, lo potrai confidare a chi ti dirà: Io vengo dai penetrali delle querce.
— Mio signore — dissi, — mi gira la testa. — Poi, mentendo: — Non riesco a rammentare le parole... veramente, le ho già dimenticate. Ti ho sentito dire che Dorcas e gli altri verranno ammessi alla Casa Assoluta?
Vodalus mi mise in mano un oggetto che non era un coltello vero e proprio, ma ne aveva la forma. Lo guardai: si trattava di un acciarino, simile a quelli usati per accendere il fuoco. — Ricorderai — disse. — E non dimenticherai il giuramento che mi hai fatto, mai. La maggior parte di coloro che vedi qui vennero, così credono, una volta sola.
— Ma sieur, la Casa Assoluta...
Le flautate note di un'aupanga riecheggiarono fra le piante, dal lato opposto del cerchio.
— Fra poco dovrò andare a scortare la sposa, ma non temere. Qualche tempo fa incontrasti un mio seguace...
— Hildegrin! Sieur, non ci capisco nulla.
— Lui si serve anche di quel nome, fra gli altri, sì. Trovò abbastanza insolito vedere un torturatore tanto lontano dalla Cittadella, un torturatore che parlava di me... al punto da farti sorvegliare, nonostante non avesse idea del fatto che in quella notte tu mi salvasti la vita. Purtroppo, coloro che ti sorvegliavano ti persero di vista alle Mura; da allora hanno seguito i tuoi compagni di viaggio nella speranza che tu li raggiungessi. Ho immaginato che un esule sarebbe stato pronto a schierarsi con noi e a salvare il mio povero Barnoch in modo che noi potessimo liberarlo. La scorsa notte sono venuto io stesso a Saltus per parlarti, ma l'unico risultato che ho ottenuto è stato di farmi rubare il destriero. Perciò oggi era indispensabile riuscire a prenderti con ogni mezzo, per impedire che tu esercitassi le tue arti sul mio servitore; ma speravo ancora di riuscire a legarti alla nostra causa, così ho voluto che ti portassero da me vivo. Questa impresa mi è costata tre uomini e me ne ha fatti guadagnare due. Adesso si tratta di verificare se questi due valgano più degli altri tre.
Si alzò, ondeggiando leggermente. Io ringraziai santa Caterina di non dovermi alzare a mia volta, perché ero certo che le gambe non mi avrebbero retto. Qualcosa di informe, bianco, alto il doppio di un uomo, aleggiava fra le piante al cinguettio dell'aupanga. Tutti voltarono la testa per guardare e Vodalus gli andò incontro. Thea si sporse al di sopra della sedia vuota per parlarmi: — Non è bellissima? Hanno compiuto un miracolo.
Si trattava di una donna seduta su una lettiga d'argento, sorretta a spalla da sei uomini. Per un istante pensai di vedere Thecla... sembrava lei, nella luce arancione. Poi mi resi conto che era solo la sua immagine... forse modellata nella cera.
— Dicono che sia pericoloso — sussurrò Thea, — quando uno ha conosciuto in vita il condiviso: i ricordi comuni possono intorpidire la mente. Eppure io che le volevo bene rischierò questa confusione e siccome ho capito dalla tua espressione, quando mi hai parlato di lei, che anche tu l'avresti voluto, non ho detto niente a Vodalus.
Vodalus aveva sollevato la mano per toccare il braccio dell'immagine mentre veniva condotta all'interno del cerchio; e insieme all'immagine giunse un odore dolce e inconfondibile. Ricordai gli aguti serviti al banchetto durante la consegna delle maschere, con il manto di noce di cocco alle spezie e gli occhi di frutti in conserva, e capii che quello che stavo vedendo era solo una ricostruzione assai somigliante di un essere umano, composta di carne arrostita.
In quel momento sarei probabilmente impazzito, se non fosse stato per l'alzabo, che si ergeva fra la mia percezione e la realtà come un gigante nella nebbia, attraverso il quale era possibile vedere tutto senza capire niente. Avevo dalla mia parte anche un'altra alleata: la conoscenza che cresceva dentro di me, la consapevolezza che, se avessi accettato e avessi trangugiato una parte della sostanza di Thecla, le tracce della sua mente che altrimenti sarebbero scomparse nella putrefazione sarebbero entrate a far parte del mio essere e, sebbene attenuate, sarebbero sopravvissute fino alla mia morte.
Acconsentii. Quanto stavo per fare non mi sembrava più così immondo e terrificante. Aprii ogni parte di me a Thecla, e ornai l'essenza della mia personalità con sentimenti di benvenuto. E giunse anche il desiderio, generato dalla droga, un appetito che nessun altro cibo avrebbe potuto saziare, e voltandomi intorno scorsi la stessa fame su tutti i volti.
Il servitore in livrea, che probabilmente era uno dei vecchi dipendenti di Vodalus andato in esilio con lui, si unì ai sei che avevano trasportato Thecla all'interno del cerchio e li aiutò a deporre a terra la lettiga. Per alcuni istanti le loro spalle mi ostruirono la vista. Quando si separarono, lei non c'era più: non rimaneva altro che le carni fumanti disposte su una tovaglia bianca.
Mangiai e aspettai, implorando il perdono. Lei meritava il sepolcro più sontuoso, marmi inestimabili di squisita armonia. Invece probabilmente era stata sepolta nella mia stanza da lavoro di torturatore, con il pavimento ben lavato e gli strumenti seminascosti sotto ghirlande di fiori. L'aria della notte era fresca, ma io stavo sudando. Aspettai che lei venisse, e avvertii le gocce di sudore scorrere sul mio petto nudo, e tenni lo sguardo fisso al suolo per il timore di vederla nei volti degli altri, prima di sentire la sua presenza in me stesso.
Proprio quando avevo perso ogni speranza... lei arrivò e mi riempì come una melodia riempie una cassetta. Ero insieme a lei, e correvo in riva all'Acis quando eravamo bambini. Conoscevo l'antica villa circondata da un lago scuro, la vista che si godeva dalle polverose finestre del belvedere e lo spazio segreto nell'angolo insolito che si trovava fra due stanze e nel quale andavamo a sederci a mezzogiorno per leggere a lume di candela. Conoscevo la vita che si svolgeva alla corte dell'Autarca, nella quale il veleno aspettava in una coppa di diamanti. Capivo che cosa volesse dire, per chi non aveva mai visto una cella o una frusta, essere prigioniera dei torturatori, e cosa significassero l'agonia e la morte.
Scoprii che per lei ero stato più di quanto avessi creduto, e finalmente piombai in un sonno nel quale i miei sogni erano interamente imperniati su di lei. Non si trattava solo di ricordi... anche prima avevo posseduto ricordi in grande quantità. Tenevo nelle mie le sue povere mani fredde e non indossavo più gli stracci di un apprendista, e nemmeno la fuliggine di un artigiano. Eravamo una cosa sola, nudi, felici e puliti, e sapevamo che lei non esisteva più, e che io ero ancora vivo, e non combattevamo contro questa realtà, ma con i capelli intrecciati leggevamo lo stesso libro e parlavamo e cantavamo di altre cose.
XII
LE NOTULE
Uscii dai sogni di Thecla e mi ritrovai nel mattino. Un momento prima stavamo passeggiando silenziosi in quello che certamente doveva essere il paradiso che il Nuovo Sole, si dice, aprirà a quanti lo invocano nei loro ultimi istanti di vita. E sebbene i saggi dicano che tale paradiso sia precluso per chi si uccide con le sue stesse mani, non posso fare a meno di credere che colui che tanto perdona talvolta non possa perdonare anche questo. E un istante dopo vidi la fredda e sgradita luce e udii il canto degli uccelli.
Mi misi a sedere. Il mio mantello era umido di rugiada, e la rugiada ricopriva anche il mio viso come sudore. Vicino a me Jonas stava iniziando a svegliarsi. A dieci passi di distanza da noi, due grandi destrieri — uno del colore del vino bianco e l'altro tutto nero — mordevano il freno e scalpitavano impazienti. Del banchetto e dei suoi partecipanti non c'erano più tracce di quante ve ne fossero di Thecla, che non ho più rivista e che spero di non rivedere più in tutta la mia vita terrena.
Terminus est era posata accanto a me sull'erba, ben protetta nel suo fodero oliato. La presi e scesi il pendio fino a incontrare il ruscello, dove mi rinfrescai come potei.
Quando tornai indietro, Jonas era sveglio. Gli spiegai la strada per arrivare all'acqua e durante la sua assenza mi congedai dalla morta Thecla.
Eppure una parte di lei è ancora in me; a volte non sono io, Severian, a ricordare, ma Thecla, come se la mia mente fosse un quadro protetto da un vetro, e Thecla stesse davanti a quel vetro e ne venisse riflessa. Inoltre, da quella notte, ogni volta che penso a lei senza ricordare un momento e un tempo ben precisi, la rivedo davanti a uno specchio, in un vestito luccicante, bianco come la brina, che le copre appena il seno per poi scendere in mutevoli cascate sotto la cintura.
Per un momento la vedo così, ed entrambe le mani si protendono per toccare il nostro volto.
Poi un turbine trascina Thecla in una stanza nella quale le pareti, il soffitto e il pavimento sono tutti a specchi. Sicuramente si tratta del suo ricordo di quella stanza, ma dopo un passo o due lei scompare nel buio e io non la vedo più.
Quando Jonas fece ritorno io ero riuscito a dominare la mia angoscia e fingevo di esaminare le cavalcature. — Il nero per te — disse lui, — e quello color panna per me, logicamente. A vederli, sembrerebbe che entrambi valgano molto più di noi, comunque, come disse il marinaio al chirurgo che gli stava amputando le gambe. Dove siamo diretti?
— Alla Casa Assoluta. — Lessi l'incredulità sul suo volto. — Non hai sentito le parole di Vodalus, ieri sera?
— Ho sentito dire quel nome, ma non avevo capito che dovessimo andare là.
Come ho già detto, non sono un bravo cavaliere, ma misi un piede nella staffa della bestia nera e mi issai in groppa. Il destriero che avevo rubato a Vodalus due notti prima portava una sella da guerra incredibilmente scomoda, ma dalla quale era molto improbabile cadere. La mia cavalcatura nera, invece, era stata fornita di una sella quasi piatta, di velluto imbottito, lussuosa quanto infida. Ero appena salito in groppa e il destriero già iniziava a scalpitare per l'impazienza.
Era forse il momento peggiore, ma era anche l'unico. Chiesi: — Che cosa ricordi?
— Della donna? Di questa notte? Niente. — Jonas schivò la mia bestia, sciolse le redini della sua e montò in sella con un balzo. — Non ho mangiato. Vodalus guardava te, e dopo aver ingerito la droga nessuno ha più fatto caso a me, e del resto conosco l'arte di fingere di mangiare senza farlo veramente.
Lo guardai stupefatto.
— L'ho fatto diverse volte anche con te... ieri a colazione, per esempio. Non avevo molta fame, ed è un trucco socialmente utile. — Mentre incitava il destriero bianco lungo un sentiero, volse la testa per gridare: — Si dà il caso che conosca la strada abbastanza bene, almeno per un lungo tratto. Ma ti dispiacerebbe dirmi per quale motivo ci stiamo andando?
— Troveremo Dorcas e Jolenta — risposi. — E devo svolgere un incarico per conto del nostro signore Vodalus. — Essendo quasi certo che fossimo sorvegliati, ritenni più prudente non specificare che non avevo nessuna intenzione di svolgerlo.
A questo punto, per evitare che il racconto della mia carriera si dilunghi in eterno, devo sorvolare sugli avvenimenti dei giorni che seguirono. Durante il viaggio riferii a Jonas tutto quello che Vodalus mi aveva detto e anche altro. Ci fermammo in vari villaggi e città e io esercitavo il mio mestiere se mi veniva richiesto... non perché avessimo bisogno di soldi, avevamo le borse che ci aveva dato la Castellana Thea, gran parte dell'onorario intascato a Saltus e il denaro che Jonas aveva ricavato dalla vendita dell'oro, ma per stornare gli eventuali sospetti.
La quarta mattina di viaggio ci trovò ancora in cammino verso il nord. Il Gyoll riceveva il sole dalla nostra destra, simile a un drago sonnacchioso messo di guardia alla strada proibita che aveva iniziato a ricoprirsi d'erba lungo le sue rive. Il giorno precedente avevamo avvistato pattuglie di ulani, cavalieri armati di lance uguali a quelle che avevano seminato la morte alla Porta della Misericordia.
Jonas, che era apparso a disagio fin dalla nostra partenza, borbottò: — Dobbiamo affrettarci, se vogliamo raggiungere la Casa Assoluta entro sera. Vorrei che Vodalus ti avesse detto il giorno in cui iniziano i festeggiamenti e ti avesse fornito delle indicazioni sulla loro durata.
— È ancora molto distante la Casa Assoluta? — chiesi.
Jonas indicò un'isola in mezzo al fiume. — Mi pare di ricordarla. E quando ero a due giorni di viaggio, alcuni viandanti mi dissero che la Casa Assoluta era vicina. Mi misero in guardia contro i pretoriani e avevano l'aria di chi parla per esperienza diretta.
Imitandolo, avevo lasciato che la mia cavalcatura avanzasse al trotto. — Eri a piedi?
— Con il mio merichippo... sono convinto che non lo rivedrò mai più, povera bestia. La sua massima velocità era inferiore all'andatura di queste bestie quando procedono adagio, lo riconosco. Ma non sono convinto che queste siano due volte più veloci.
Stavo per ribattere che certamente Vodalus non ci avrebbe mandato alla Casa Assoluta se non avesse avuto la certezza che saremmo arrivati in tempo quando qualcosa che a prima vista mi sembrò un enorme pipistrello passò in volo a una spanna dalla mia testa.
Io non sapevo di che cosa si trattasse, Jonas sì. Urlò parole che non capii e colpì il mio destriero con le redini. L'animale fece un balzo in avanti e rischiò di disarcionarmi; in un istante ci trovammo lanciati a un galoppo sfrenato. Rammento che sfrecciai in mezzo a due piante, facendo fatica a passare, e che scorsi quella cosa stagliarsi contro il cielo come una macchia di fuliggine. Dopo un momento la udii sbattere fra i rami dietro di noi.
Quando lasciammo il bosco e ci addentrammo nel canalone in secca, la perdemmo di vista; ma quando raggiungemmo il fondo e iniziammo a risalire dalla parte opposta, riemerse dalle piante, più malandata che mai.
Per il tempo di una preghiera sembrò non vederci più, mentre si librava ad angolo retto rispetto al nostro tragitto; quindi scese in picchiata verso di noi in una lunga e diritta planata. Io avevo sguainato Terminus est e frenai il destriero tra la cosa volante e Jonas.
Sebbene i nostri animali fossero veloci, quella cosa lo era ancora di più. Se avessi avuto una lama appuntita, penso che l'avrei infilzata quando si tuffò; e se l'avessi fatto sarei certamente morto. Invece, la colpii con un fendente a due mani. Fu come tagliare l'aria, perciò pensai che fosse troppo leggera e dura anche per la mia affilatissima lama. Un istante dopo, si divise come uno straccio; percepii una momentanea sensazione di calore, come se si fosse aperto lo sportello di un forno e poi si fosse silenziosamente richiuso.
Mi sarebbe piaciuto scendere a terra per osservarla meglio, ma Jonas urlò agitando le braccia. Ci eravamo lasciati alle spalle la maestosa foresta di Saltus e ci stavamo addentrando in un territorio accidentato di colline ripide e di cedri sfrangiati. In cima al pendio scorsi un boschetto; ci lanciammo come pazzi in mezzo a quella vegetazione contorta, tenendoci curvi sul collo delle nostre cavalcature.
Ben presto il fogliame divenne talmente folto che i destrieri furono costretti a procedere al passo. In breve raggiungemmo una rupe perpendicolare e ci dovemmo fermare. Nel silenzio avvertii qualcosa che si muoveva dietro di noi... un fruscio secco, come se un uccello ferito stesse svolazzando fra le cime degli alberi. L'aroma medicinale dei cedri mi mozzava il respiro.
— Dobbiamo uscire di qui — ansimò Jonas. — O per lo meno continuare a muoverci. — Un rametto scheggiato gli aveva scalfito una guancia e dalla ferita sgorgava un filo di sangue mentre parlava. Dopo aver osservato entrambe le direzioni, svoltò verso destra, lungo il fiume, sferzando la sua cavalcatura per obbligarla a farsi strada in quello che sembrava un intrico impenetrabile.
Lasciai che mi aprisse un varco, pensando che se la cosa scura ci avesse raggiunti avrei potuto provare a difendermi. Poco dopo la avvistai in mezzo al fogliame grigioverde; alcuni istanti dopo ne comparve un'altra, molto simile alla prima e di poco più indietro.
Il bosco terminò, e noi potemmo spronare i destrieri riprendendo il galoppo. I brandelli svolazzanti di tenebra ci inseguirono, ma nonostante le loro ridotte dimensioni li facessero sembrare più veloci, in realtà erano più lenti di quanto lo fosse stata l'intera entità.
— Dobbiamo trovare un fuoco — gridò Jonas, in mezzo al tambureggiare degli zoccoli sul terreno. — Oppure un grosso animale da poter uccidere. Se tagliassimo il ventre a uno dei nostri probabilmente faremmo la cosa giusta, ma se non servisse a niente, non avremmo più la possibilità di fuggire.
Annuii per fargli capire che anch'io ero contrario all'idea, anche se temevo che il mio destriero presto sarebbe crollato per la stanchezza. Jonas dovette far rallentare il suo per aspettarmi. Domandai: — È il sangue che cercano?
— No, il caldo.
Jonas fece voltare il suo animale verso destra e lo colpì al fianco con la mano d'acciaio. Doveva aver colpito duramente, perché la bestia sfrecciò in avanti come se fosse stata punta. Oltrepassammo un corso d'acqua in secca, galoppammo scivolando e slittando lungo un sentiero polveroso che scendeva il pendio e ci imbattemmo in un terreno aperto e ondulato dove i destrieri erano liberi di esprimere la loro massima velocità.
Alle nostre spalle svolazzavano gli stracci neri. Volavano a un'altezza doppia rispetto a quella delle grandi piante e sembravano portati dal vento, nonostante le ondulazioni dell'erba mostrassero che l'aria spirava in senso opposto.
Più avanti il terreno mutò leggermente e tuttavia rapidamente, come la stoffa cambia nelle cuciture. Un nastro verde e sinuoso si snodava piatto, come pressato da un rullo, e io deviai il mio animale nero in quella direzione, urlandogli nelle orecchie e colpendolo a piattonate con la spada. Era coperto di sudore e striato dal sangue che sgorgava dalle escoriazioni provocate dai ramoscelli spezzati dei cedri. Dietro di me udii le grida di avvertimento di Jonas, ma non vi feci caso.
Aggirammo una curva e in un varco che si apriva in mezzo alle piante scorsi baluginare il fiume. Un'altra curva, mentre il mio destriero iniziava a barcollare... e poi in lontananza, quello che mi ero aspettato di vedere. Forse farei meglio a non dirlo, ma in quel momento alzai la spada verso il Cielo, verso il sole sbiadito con il verme nel cuore e gridai: — La sua vita per la mia, Nuovo Sole, per la tua ira e la mia speranza!
L'ulano, che era solo, dovette certo immaginare che lo stessi minacciando, come in effetti era. L'azzurra luminosità della sua lancia si intensificò mentre incitava il suo animale per venirmi incontro.
Per quanto sfinito, il mio destriero deviò come una lepre inseguita. Un movimento delle redini e slittò e si volse, sfregiando con gli zoccoli l'erba verde della strada. Nel tempo di un respiro avevamo invertito la direzione e stavamo tornando di corsa verso le cose che ci inseguivano. Non so se Jonas capì che cosa avessi in mente, ma lo assecondò, senza mai rallentare la sua velocità nemmeno per un momento.
Uno degli esseri svolazzanti si lanciò in picchiata, come uno squarcio aperto nell'Universo, così simile com'era al mio manto di fuliggine e privo di luce. Stava cercando di avventarsi su Jonas, penso, ma arrivò alla portata della mia spada e io lo tranciai come avevo già fatto; avvertii nuovamente la vampata di calore. Sapendo da dove veniva, quel caldo mi parve più nauseante di qualsiasi odore immondo e la semplice sensazione che impresse nella mia pelle mi provocò un malessere. Feci deviare bruscamente il destriero, per timore di essere colpito da una folgore dell'ulano. Avevamo appena lasciato la strada quando la folgore bruciò il terreno e incendiò un albero morto.
Tirai energicamente all'indietro la testa della mia cavalcatura facendola impennare e ruggire. Per un attimo cercai con lo sguardo i tre brandelli di tenebra intorno all'albero incendiato. Non li trovai. Allora guardai verso Jonas, con il timore che l'avessero raggiunto e che lo stessero attaccando in un modo che non riuscivo a capire.
Non erano nemmeno là. Comunque, gli occhi di Jonas mi mostrarono dove erano andati: stavano svolazzando intorno all'ulano e questi, mentre lo guardavo, cercava di difendersi con la sua lancia. Scarica dopo scarica, fendeva l'aria e si udiva un susseguirsi ininterrotto di schianti. Ogni scarica cancellava il fulgore del sole, ma quelle stesse energie che l'uomo usava per cercare di annientarli parevano rinvigorirli. Ai miei occhi non volavano più, ma guizzavano come raggi di tenebra, comparendo prima in un punto e poi in un altro, e sempre più vicini all'ulano fino a quando, in un tempo più rapido di quello che io ho impiegato a descrivere la scena, si avventarono tutti e tre contro il suo volto. L'ulano cadde di sella e la lancia gli scivolò di mano, spegnendosi.
XIII
L'ARTIGLIO DEL CONCILIATORE
— È morto? — gridai. Jonas annuì. Mi sarei voluto allontanare subito al galoppo, ma lui mi fece segno di raggiungerlo e di scendere a terra. Quando ci trovammo vicino al corpo dell'ulano, disse: — Forse possiamo annientare queste cose in modo che non possano più essere lanciate contro di noi né usate per nuocere ad altri. Adesso sono sazie e penso che potremo maneggiarle. Ci serve qualcosa per riporle... qualcosa di stagno, di metallo o di vetro.
Io non avevo niente di simile e glielo dissi.
— Nemmeno io. — Jonas si inginocchiò accanto all'ulano e gli frugò nelle tasche. Il fumo aromatico che emanava dall'albero incendiato inghirlandava tutto come incenso e a me sembrò di essere tornato nella Cattedrale delle Pellegrine. Lo strato di ramoscelli e di foglie della tarda estate sul quale era sdraiato l'ulano avrebbe potuto essere il pavimento cosparso di paglia e i tronchi delle piante i pali di sostegno.
— Ecco — disse Jonas, raccogliendo un vasculum d'ottone. Tolse il coperchio e lo svuotò delle erbe, quindi rotolò sull'ulano morto.
— Dove sono? — chiesi. — Il corpo li ha assorbiti?
Jonas scosse il capo e dopo un istante, con estrema attenzione e delicatezza, iniziò a estrarre una delle cose scure dalla narice sinistra dell'ulano. A parte il fatto che era completamente opaca, pareva fatta della carta velina più sottile.
La cautela di Jonas mi stupì. — Se tu la lacerassi, diventerebbero due?
— Sì, ma adesso è sazia. Divisa, perderebbe energia e forse sarebbe impossibile maneggiarla. Molti sono morti, sai, perché avevano scoperto di poter tagliare questi esseri e hanno insistito nel farlo fino a quando si sono trovati circondati da un numero troppo grande di brandelli per riuscire a tenerli lontani.
Un occhio dell'ulano era semiaperto. Avevo visto moltissimi cadaveri prima di allora, ma di fronte a quello non riuscii a liberarmi della sensazione che mi stesse osservando, che stesse spiando l'uomo che l'aveva ucciso per salvare se stesso. Per pensare ad altro, dissi: — Dopo aver tagliato il primo, mi è sembrato che volasse più lentamente.
Jonas aveva posato nel vasculum l'orrore che aveva estratto e stava togliendo il secondo dalla narice destra del morto. Mormorò: — La velocità di tutto ciò che vola dipende dalle dimensioni delle ali. Se non fosse così, coloro che si servono di queste creature probabilmente le farebbero a brandelli prima di lanciarle.
— Ne parli come se le avessi già incontrate.
— Una volta facemmo scalo in un porto nel quale vengono usate per gli omicidi rituali. Logicamente qualcuno le portava con sé, ma queste sono le prime che vedo qui. — Jonas sollevò il coperchio d'ottone e ripose la seconda macchia di fuliggine sulla prima, che si agitò torpidamente. — Qui dentro si ricomporranno... è in tal modo che fanno anche gli adepti. Non penso che tu vi abbia fatto caso, ma si erano un po' logorate attraversando il bosco e si sono ricomposte durante il volo.
— Ce n'è ancora una — dissi.
Jonas annuì e si servì della mano d'acciaio per aprire a forza la bocca del morto. Invece di vedere i denti e la lingua livida, scorsi un abisso senza fondo, e per un istante mi sentii rivoltare lo stomaco. Jonas estrasse la terza creatura, bagnata dalla saliva dell'ulano.
— Gli avrebbe risparmiato una narice o la bocca se non avessi tagliato la cosa una seconda volta?
— Gli sarebbe penetrata nei polmoni. A dire la verità, siamo stati fortunati avendolo potuto raggiungere tanto in fretta. Diversamente, saremmo stati costretti a squarciare il corpo per poterle estrarre.
Un filo di fumo mi fece venire in mente il cedro che stava bruciando. — Se era il calore, quello di cui avevano bisogno...
— Preferiscono il calore della vita, anche se talvolta si possono distrarre con un fuoco di materia vegetale vivente. In realtà, penso che cerchino qualcosa in più del calore. Forse un'energia radiante tipica delle cellule in crescita. — Jonas mise la terza creatura nel vasculum e lo richiuse di colpo. — Noi le chiamavamo notule, perché generalmente giungono dopo il tramonto, quando è impossibile vederle, e il primo segnale della loro presenza è un soffio di calore. Non so come le chiamino gli indigeni.
— Dove si trova quest'isola?
Jonas mi guardò con curiosità.
— È lontana dalla costa? Ho sempre desiderato vedere Uroboros, anche se credo che sia pericoloso.
— È molto lontana — rispose Jonas in tono asciutto. — Molto, molto lontana. Aspetta un istante.
Attesi, mentre si avvicinava al fiume. Lanciò con tutta la sua forza il vasculum... che cadde nell'acqua quasi al centro della corrente, quindi fece ritorno e io gli domandai: — Non avremmo potuto servirci noi di quelle cose? Non credo che chi le ha inviate sia pronto a ritirarsi adesso, e avremmo potuto averne bisogno.
— Non ci avrebbero obbediti, e comunque il mondo starà meglio senza di loro, come disse la moglie al macellaio quando gli tagliò i testicoli. Adesso faremmo meglio ad andarcene. Sta arrivando qualcuno.
Guardai nella direzione indicatami e vidi due figure a piedi. Jonas aveva preso il destriero per le briglie mentre l'animale stava bevendo, ed era pronto a risalire in sella. — Aspetta — dissi. — Anzi, allontanati di una catena o due e poi aspettami là. — Stavo pensando al moncherino sanguinante dell'uomo-scimmia e mi pareva di vedere le fioche lampade votive della cattedrale, color cremisi e magenta, appese tra le piante. Infilai la mano nello stivale, fino al punto in cui l'avevo spinto per tenerlo al sicuro, ed estrassi l'Artiglio.
Era la prima volta che lo vedevo alla luce del giorno. Rifletteva il sole e lampeggiava come un Nuovo Sole, non solo azzurro, ma di tutti i colori, dal violetto al ciano. Lo posai sulla fronte dell'ulano e per un momento mi sforzai, con la volontà, di restituirgli la vita.
— Vieni via — urlò Jonas. — Cosa stai facendo?
Non sapevo cosa rispondergli.
— Non è ancora morto — gridò lui, ancora. — Allontanati prima che riprenda la lancia! — e incitò il suo destriero.
Debolmente, una voce che mi sembrò di riconoscere gridò: — Padrone! — Voltai la testa per guardare la strada coperta d'erba.
— È Hethor — dissi. Ma Jonas era sparito. Mi volsi nuovamente verso l'ulano. Aveva aperto entrambi gli occhi e il suo petto si muoveva nella respirazione. Quando gli levai l'Artiglio dalla fronte per riporlo nello stivale, si mise a sedere. Gridai a Hethor e al suo compagno di abbandonare la strada, ma non mi capirono.
— Chi sei?
— Un amico — risposi.
Nonostante fosse molto debole, l'ulano cercò di alzarsi. Gli allungai una mano per aiutarlo. Dapprima guardò ogni cosa attentamente... me, i due uomini che stavano accorrendo, il fiume, le piante. I destrieri sembrarono spaventarlo, persino il suo che lo stava aspettando tranquillamente. — Che posto è questo?
— Solo un tratto della vecchia strada, vicino al Gyoll.
L'ulano scrollò la testa e la strinse fra le mani.
Hethor si avvicinò ansimando, come un cane maleducato che è corso al richiamo e che si attende un elogio. Il suo compagno, che era rimasto indietro di un centinaio di passi, portava vestiti sgargianti e aveva l'aspetto untuoso del piccolo mercante.
— P-p-padrone — disse Hethor, — non p-p-puoi immaginare le f-fatichc e le difficoltà che abbiamo dovuto superare per raggiungerti attraverso le montagne, i m-mari e le p-pianure scricchiolanti di questo bel mondo. Che cosa sono io, il tuo s-schiavo. se non una c-conchiglia abbandonata, z-zimbello di mille maree, gettata a riva in questo posto s-solitario perché non riesco a trovare riposo s-senza di te? C-come puoi, o maestro dal rosso artiglio, c-conoscere le immense f-fatiche che ci sei costato?
— Dal momento che ti ho lasciato a Saltus appiedato e che ho avuto dei buoni destrieri in questi giorni, immagino che le fatiche debbano essere state immense.
— Infatti — disse Hethor. Lanciò una significativa occhiata al suo compagno, come se il mio commento avesse confermato qualcosa di cui avevano precedentemente discusso, quindi si lasciò cadere a terra per riposare.
L'ulano disse lentamente: — Io sono Cornet Mineas. E voi chi siete?
Hethor agitò la testa, come per fare un inchino. — Il p-padrone è il nobile Severian, servitore dell'Autarca, la cui orina è vino per i suoi sudditi, e membro della Corporazione dei Cercatori della Verità e della Penitenza. H-hethor è il suo umile servitore. Anche Beuzec è un suo umile servitore. Immagino che anche l'uomo che si è allontanato lo sia.
Gli feci cenno di tacere. — Tutti noi siamo solo poveri viaggiatori, Cornet. Ti abbiamo visto a terra stordito e abbiamo cercato di aiutarti. Poco fa credevamo che tu fossi morto; deve esserci mancato poco.
— Che posto è questo? — domandò nuovamente l'ulano.
Hethor rispose premurosamente: — La strada a nord di Quiesco, p-padrone. Eravamo su una b-barca e abbiamo navigato le ampie acque del Gyoll nella notte buia. Siamo sbarcati a Quiesco. Io e Beuzec ci s-siamo guadagnati il passaggio lavorando sul p-ponte alle vele. Abbiamo risalito il fiume lentamente, mentre i f-fortunati passavano sfrecciando sopra le nostre teste, diretti alla Casa Assoluta, ma la n-nave ha continuato ad avanzare anche q-quando dormivamo, e così siamo r-riusciti a raggiungerti.
— La Casa Assoluta? — borbottò l'ulano.
— Non deve essere lontana da qui, credo — dissi io.
— Allora devo stare particolarmente all'erta.
— Sono certo che presto ti raggiungerà uno dei tuoi camerati. — Presi il mio destriero e salii in groppa.
— P-padrone, non ci l-lascerai di nuovo? Beuzec ti ha visto sul palco solo due volte.
Stavo per rispondergli quando colsi un lampo bianco fra le piante, dal lato opposto della strada. Qualcosa di enorme si stava muovendo. Subito la mia mente venne colpita dal pensiero che chiunque avesse inviato le notule potesse avere a disposizione altre armi, perciò affondai i talloni nei fianchi del destriero nero.
L'animale sfrecciò via. Per mezza lega o più corremmo lungo la stretta fascia di terreno che divideva la strada dal fiume. Quando finalmente avvistai Jonas mi lanciai al galoppo per avvertirlo e per riferirgli quanto avevo visto.
Mentre parlavo, lui pareva immerso nei suoi pensieri. Quando ebbi finito, disse: — Non ho mai visto niente di simile all'essere che mi hai appena descritto, tuttavia ci devono essere molte cose importate delle quali io non sono a conoscenza.
— Ma di certo un essere come quello non può vagare in libertà come una mucca smarrita!
Invece di rispondermi, Jonas mi mostrò il terreno pochi passi più avanti.
Vidi un sentiero di ghiaia, poco più largo di un cubito, che si snodava in mezzo alle piante. Sui suoi lati crescevano più fiori selvatici di quanti ne avessi mai visti crescere altrove e i ciottoli erano tanto uniformi e lucenti che certamente dovevano provenire da una spiaggia segreta e distante.
Mi avvicinai un po' per osservare meglio, poi chiesi a Jonas che cosa potesse significare un simile sentiero.
— Una cosa sola, ne sono sicuro... ci troviamo già sui terreni della Casa Assoluta.
Improvvisamente ricordai quel posto. — Sì — dissi. — Una volta io e Josepha, insieme ad alcuni altri, venimmo qui a pescare. Passammo accanto alla quercia storta...
Jonas mi fissò come se fossi impazzito, e per un momento pensai di esserlo davvero. Ero andato più volte a caccia, prima, ma quello su cui ero seduto non era un destriero da caccia, bensì da combattimento. Le mie mani si levarono come ragni per strapparmi gli occhi... e l'avrebbero fatto se l'uomo lacero al mio fianco non le avesse abbassate violentemente con la sua mano, che era d'acciaio. — Tu non sei la Castellana Thecla — mi disse. — Sei Severian, un artigiano dei torturatori che ha avuto la sfortuna di amarla. Guardati! — Alzò la mano d'acciaio per permettermi di vedere il volto di uno sconosciuto, magro, brutto e sconvolto, riflesso nella superficie lucida.
Mi sovvenni della nostra torre, delle pareti curve di liscio metallo scuro. — Io sono Severian — dissi.
— Infatti. La Castellana Thecla è morta.
— Jonas...
— Sì?
— L'ulano è vivo... l'hai visto. L'Artiglio gli ha restituito la vita. Gliel'ho appoggiato sulla fronte e forse l'ha visto con i suoi occhi morti. Si è sollevato a sedere. Ha ripreso a respirare e si è messo a parlare, Jonas.
— Non era morto.
— L'hai visto anche tu — ripetei.
— Sono molto più vecchio di te. Più vecchio di quanto immagini. E se c'è una cosa che ho imparato nel corso di tutti i miei viaggi è che i morti non risorgono e che gli anni non tornano indietro. Quello che è stato è passato e non torna più.
Il volto di Thecla era ancora dinnanzi a me, ma era scosso da un vento buio e a poco a poco svanì. — Se l'avessi usato, se avessi invocato il potere dell'Artiglio quando eravamo al banchetto dei morti...
— L'ulano stava per soffocare, ma non era completamente morto. Quando gli ho estratto le notule è riuscito a respirare di nuovo e dopo un po' ha recuperato i sensi. In quanto alla tua Thecla, nessun potere dell'universo avrebbe potuto restituirle la vita. Devono averla esumata quando tu eri ancora imprigionato nella Cittadella e poi l'avranno custodita in una grotta colma di ghiaccio. Prima che noi la vedessimo, l'avevano sventrata come una pernice e avevano arrostito le sue carni. — Jonas mi strinse fortemente il braccio. — Severian, non essere stupido!
In quel momento volevo solo morire. Se la notula fosse ricomparsa, l'avrei abbracciata. Quello che invece vidi in fondo al sentiero, in lontananza, era una sagoma bianca uguale a quella che avevo avvistato vicino al fiume. Mi allontanai da Jonas e mi lanciai al galoppo verso di essa.
XIV
L'ANTICAMERA
Vi sono esseri — e manufatti — contro i quali lottiamo inutilmente con la nostra intelligenza e ai quali infine ci arrendiamo dicendo: Si trattava di un'apparizione, una cosa bellissima e orribile.
Da qualche parte, in uno dei mondi turbinanti che fra poco esplorerò, vive una razza simile e nello stesso tempo diversa da quella umana. Non sono molto più alti di noi. I loro corpi sono uguali ai nostri, ma sono perfetti e il loro modello ci è estraneo. Come noi, hanno occhi, naso e bocca, ma si servono di tali connotati, che come ho già detto sono perfetti, per esprimere emozioni che noi non abbiamo mai provato e perciò vedere i loro volti è come guardare un antico e terribile alfabeto di sentimenti, contemporaneamente importante e del tutto incomprensibile.
Tale razza esiste, ma non la incontrai là ai margini della Casa Assoluta. Quello che avevo visto muoversi fra le piante e verso cui mi ero lanciato — fino a quando non lo vidi chiaramente — era piuttosto l'immagine gigantesca di un simile essere, animata dalla vita. La carne era di pietra bianca e gli occhi possedevano la cecità tondeggiante e levigata, come sezioni ricavate da gusci d'uovo, che generalmente cogliamo nelle nostre statue. Si muoveva adagio, come un drogato o un sonnambulo ma non barcollava. Sembrava cieco, ma con una propria consapevolezza, per quanto tarda.
Mi sono soffermato a rileggere quello che ho scritto e mi sono accorto di non essere affatto riuscito a spiegare l'essenza di quella cosa. Il suo spirito era quello della scultura. Se un angelo caduto avesse sentito la mia conversazione con l'uomo verde, probabilmente avrebbe escogitato un simile enigma per prendersi gioco di me. Ogni suo movimento aveva la serenità e la permanenza dell'arte e della pietra. Avevo la sensazione che ogni gesto, ogni posizione assunta dalla testa, dagli arti e dal busto, potesse essere l'ultimo; oppure che ciascuno potesse ripetersi all'infinito, come le posizioni degli gnomoni nella meridiana sfaccettata di Valcria si ripetevano lungo i corridoi curvilinei degli istanti.
La mia paura iniziale, dopo che la stranezza della statua ebbe annullato il mio desiderio di morte, fu la paura istintiva che mi facesse del male.
Il mio secondo terrore fu che non ci provasse. Aver sentito tanto timore per quella figura silenziosa e inumana e poi accorgersi che non era sua intenzione farmi del male, sarebbe stato insopportabilmente umiliante. Dimenticando il danno che avrebbe subito la sua lama nel colpire quella pietra vivente, sguainai Terminus est e frenai il destriero nero. La brezza stessa sembrò fermarsi mentre stavamo così, il destriero che fremeva appena, io con la spada innalzata, quasi immobili anche noi come statue. La vera statua si incamminò verso di noi, il suo volto grande tre o quattro volte il normale, recava impresso un sentimento inconcepibile e le sue membra erano avvolte da una bellezza perfetta e terribile.
Udii il grido di Jonas e l'eco di un colpo. Ebbi appena il tempo di vederlo a terra mentre lottava con alcuni uomini dagli alti elmi con il pennacchio che scomparvero e riapparvero mentre li fissavo, quando qualcosa mi sibilò accanto all'orecchio; qualcos'altro mi colpì il polso e io mi ritrovai a dimenarmi in una rete di corde che mi stringevano come tanti piccoli boa. Qualcuno mi prese per una gamba e mi fece cadere.
Quando ripresi i sensi abbastanza da rendermi conto di quello che stava succedendo, avevo un cappio di metallo intorno al collo e uno degli uomini che mi avevano catturato stava frugando nella mia borsa. Distinguevo chiaramente le sue mani che sfrecciavano come passeri bruni. Anche il suo volto era visibile, una maschera impassibile che pareva sospesa su di me da un prestigiatore. Un paio di volte, mentre si spostava, l'incredibile armatura che portava emise un luccichio; poi la vidi come si può vedere un bicchiere di cristallo immerso nell'acqua trasparente. Rifletteva la luce, credo, ed era brunita in misura maggiore alle possibilità umane, così che il materiale di cui era composta risultava invisibile e si scorgevano solo il verde e il marrone del bosco, deformati dalle curve della corazza, della gorgiera e dei gambali.
Nonostante le mie proteste in qualità di membro della corporazione, il pretoriano prese tutti i soldi che avevo, ma mi lasciò il libro marrone di Thecla, il mio frammento di cote, l'olio e la flanella e gli altri oggetti che avevo nella borsa. Quindi, con agilità, ritirò le corde che mi tenevano prigioniero e, per quanto riuscii a capire, le mise nel foro della corazza, non prima che io le avessi viste. Mi facevano venire in mente la frusta che noi chiamiamo «gatto» ed erano un intrico di cinghie unite a un'estremità e appesantite all'altra; successivamente avrei imparato che quell'arma si chiama achico.
Il mio custode tirò il cappio metallico, obbligandomi ad alzarmi. Come in altre simili occasioni, capivo che in un certo senso stavamo portando avanti un gioco. Stavamo fingendo che io fossi completamente in suo possesso, quando in realtà avrei potuto oppormi e restare seduto fino a che lui mi avesse strangolato o avesse chiamato alcuni compagni per trasportarmi. Avrei anche potuto fare molte altre cose: prendere la corda metallica e cercare di strappargliela, colpirlo in faccia. Avrei potuto scappare, restare ucciso, perdere la coscienza o precipitare nel dolore; ma non ero costretto a fare quello che feci.
Per lo meno, io sapevo che si trattava di un gioco, e sorrisi mentre il pretoriano riponeva Terminus est nel fodero e mi portava vicino a Jonas.
— Non abbiamo fatto niente di male — diceva Jonas. — Restituite la spada al mio amico e riconsegnateci i nostri animali, ce ne andremo.
Non ebbe risposta. Silenziosamente due pretoriani (a me parvero quattro passeri svolazzanti) presero i nostri destrieri e li portarono via. Com'erano simili a noi quelle bestie, mentre camminavano pazientemente senza sapere dove fossero dirette, con le teste massicce che seguivano sottili fili di cuoio! Nove decimi della nostra vita, almeno così mi pare, sono fatti di queste rese!
Gli uomini che ci avevano catturato ci condussero fuori dal bosco, fino a un prato ondulato. La statua ci seguiva e altre molto simili si unirono a noi fino a quando furono una dozzina o più, tutte immense, diverse e bellissime. Domandai a Jonas chi fossero quei soldati e dove ci stessero portando, ma lui non mi rispose e io per poco non mi strangolai.
Per quanto potevo capire, i pretoriani erano corazzati dalla testa ai piedi, ma la perfetta lucentezza del metallo dava loro una morbidezza apparente e quasi liquida che era profondamente angosciante per l'occhio e che gli consentiva di dissolversi nel cielo e nell'erba a pochi passi di distanza. Dopo mezza lega di cammino attraverso il prato, ci addentrammo in un boschetto di susini in fiore, e subito gli elmi con i pennacchi e le corazze danzarono di riflessi dorati e bianchi.
Imboccammo un sentiero che curvava e curvava ancora. Proprio quando stavamo per riemergere dal boschetto ci arrestammo e io e Jonas venimmo spinti violentemente indietro. Udii i piedi delle statue di pietra che ci seguivano stridere sulla ghiaia mentre si fermavano; uno dei soldati le tenne a distanza con quello che a me parve un grido senza parole. Curiosai fra i fiori per vedere cosa stesse accadendo davanti a noi.
Vidi un sentiero molto più largo di quello su cui ci trovavamo. In realtà si trattava di un viale, ingrandito al punto di trasformarsi in una splendida strada trionfale. Il lastricato era di pietra bianca e balaustrate di marmo lo fiancheggiavano su entrambi i lati. Lungo il viale marciava una variopinta compagnia. Quasi tutti i suoi componenti erano in piedi, ma alcuni montavano animali di vario tipo. Uno conduceva per la briglia un irsuto artoterio, un altro stava appollaiato sul collo di un bradipo di terra, più verde dei prati. Non appena quel gruppo si allontanò ne sopraggiunsero altri. Nonostante fossero ancora troppo lontani per distinguere i loro volti, scorsi un gruppo nel quale la testa china di un individuo si ergeva di almeno tre cubiti sopra le altre. Un istante più tardi riconobbi in un altro dei suoi componenti il dottor Talos, che avanzava pomposamente con il petto in fuori e la testa alta. Dietro di lui camminava la mia cara Dorcas, più che mai con l'aspetto di una bambina desolata piombata lì da più alte sfere. Svolazzante di veli e scintillante di gioielli falsi sotto il parasole, Jolenta avanzava su un piccolissimo ginetto; e dietro a tutti, spingendo pazientemente sulla carriola tutto quanto non riusciva a trasportare sulle spalle, veniva quello che avevo riconosciuto per primo, il gigante Baldanders.
Se per me fu doloroso vederli passare senza poterli chiamare, per Jonas fu un vero tormento. Proprio quando era davanti a noi, Jolenta voltò la testa. A me parve che avesse percepito il suo desiderio, come si dice che fra le montagne alcuni spiriti immondi siano attratti dall'odore della carne che è stata gettata per loro sul fuoco. Sicuramente furono solo gli alberi in fiore ad attirare la sua attenzione. Udii Jonas prendere fiato; ma la prima sillaba del nome di Jolenta venne soffocata dal rumore del colpo che seguì, e lui cadde a terra ai miei piedi. Quando ripenso a quella scena, il tonfo della sua mano metallica sulla ghiaia del sentiero rivive intenso come il profumo dei fiori di susino.
Quando tutte le compagnie di comici furono passate, due pretoriani sollevarono il corpo del povero Jonas e lo trasportarono. Lo fecero facilmente, come se si fosse trattato di un bambino, e allora lo attribuii solo alla loro forza. Attraversammo la strada che gli attori avevano percorso e oltrepassammo una siepe di rose più alta di un uomo, coperta d'immensi fiori bianclù e brulicante di uccellini.
Oltre la siepe si trovavano i giardini veri e propri. Se cercassi di descriverli, darei l'impressione di aver preso in prestito il demenziale e balbettante eloquio di Hethor. Ogni collina, pianta, fiore parevano disposti da un'intelligenza suprema (che in seguilo ho appreso essere stata quella di Padre Inire) per creare una visione incredibile. L'osservatore ha la sensazione di essere nel centro e che tutto quello che vede è orientato verso il punto in cui si trova; ma dopo aver percorso cento passi o una lega, si ritrova ancora al centro. Ogni visione sembra voler esprimere una verità incomunicabile, come una di quelle intuizioni inesprimibili caratteristiche degli eremiti.
Quei giardini erano talmente belli che passò parecchio tempo prima che ci rendessimo conto che non si vedeva nessuna torre. Solo uccelli e nuvole, e al di là di essi il vecchio sole e le stelle pallide si innalzavano più alti delle cime degli alberi: sembrava di vagare in un mondo incantato. Quindi raggiungemmo la cresta di un'ondulazione del terreno, più affascinante di ogni ondata di cobalto di Uroboros, e con un'incredibile rapidità un abisso si aprì ai nostri piedi. Ho detto abisso, ma in realtà non assomigliava affatto a quello che viene comunemente definito in tal modo. Si trattava piuttosto di una grotta colma di fontane e di fiori notturni e costellata di persone più brillanti dei fiori, persone che oziavano vicino alle sue acque e che chiacchieravano nelle sue ombre.
Improvvisamente, come se un muro fosse crollato per lasciar penetrare la luce in una tomba, molti ricordi della Casa Assoluta acquisiti con l'assorbimento della vita di Thecla presero forma dentro di me. Capii qualcosa che era stato sottinteso nel dramma del dottore e in molte storie che Thecla mi aveva raccontato senza mai farvi un chiaro accenno: tutto il grande palazzo era sottoterra... o meglio, i tetti e i muri erano ricoperti di terriccio costellato di piante e fiorito, così che non avevamo fatto altro che camminare sopra la dimora dell'Autarca. che io avevo pensato essere ancora distante.
Non scendemmo in quella grotta, che sicuramente portava in camere del tutto inadatte alla custodia dei prigionieri, e non scendemmo in nessuna delle venti o più grotte che incontrammo in seguito. Infine ne raggiungemmo una più buia sebbene non meno bella. La scala per mezzo della quale vi si accedeva dava l'impressione di una formazione naturale di roccia scura, irregolare e pericolosa. Dall'alto sgocciolava l'acqua e nella parte superiore della caverna, dove arrivava ancora luce, crescevano felci ed edere scure. Mille gradini più in basso, le pareti erano ricoperte di funghi ciechi; alcuni erano luminescenti, altri colmavano l'aria di uno strano odore di muffa, altri ancora rammentavano fantasiosi feticci fallici.
Nel mezzo di quel giardino, sorretti da impalcature e coperti di verderame, erano appesi numerosi gong. Mi sembrarono creati per essere percossi dal vento, ma era impossibile che il vento li potesse raggiungere lì sotto.
Così pensavo, almeno, fino a quando uno dei pretoriani spalancò una pesante porta di bronzo e di legno tarlato in una delle pareti di pietra scura. In quel momento, un soffio d'aria fredda e asciutta passò attraverso l'apertura e fece oscillare e scontrare i gong, talmente intonati fra di loro che il suono prodotto mi sembrò la composizione studiata da qualche musicista i cui pensieri erano stati esiliati lì.
Osservando i gong (i pretoriani non mi proibirono di farlo) vidi le statue che ci avevano seguito attraverso i giardini: erano una quarantina e stavano orlando l'abisso, finalmente immobili. Ci fissavano dall'alto come un fregio di cenotafi.
Ero convinto che mi avrebbero messo in una piccola cella da solo, inconsciamente trasferendo su quel posto le abitudini delle nostre segrete, ma non potevo essere più lontano dalla realtà. L'entrata non si apriva su un corridoio fiancheggiato di anguste porte, ma su una spaziosa galleria, il cui pavimento era ricoperto di tappeti e che aveva un'altra entrata dal lato opposto. Gli hastarii armati di lance fiammeggianti erano di guardia di fronte alla seconda porta. Alla parola di uno dei pretoriani le sentinelle spalancarono i battenti: vidi un'immensa stanza spoglia e semibuia, con il soffitto molto basso. Diverse dozzine di persone, uomini, donne e persino alcuni bambini, erano sparse dappertutto... quasi tutti se ne stavano da soli, alcuni invece formavano coppie o gruppetti. Le famiglie occupavano le alcove e in alcuni punti scorsi dei paraventi di stracci costruiti per garantirsi un po' di intimità.
Fummo fatti entrare in quella camera. O meglio, io venni spinto e lo sventurato Jonas fu gettato. Cercai di sorreggerlo mentre cadeva, ma riuscii solo a impedire che sbattesse la testa sul pavimento. In quell'istante udii i battenti richiudersi rumorosamente dietro di me.
XV
IL FUOCO DELLA PAZZIA
Ero circondato da facce. Due donne portarono via Jonas e mi promisero che si sarebbero prese cura di lui. Gli altri iniziarono a tempestarmi di domande: qual era il mio nome? Che vestiti erano quelli che avevo indosso? Da dove venivo? Conoscevo l'uno o l'altro? Ero mai stato in questa o quella città? Ero un membro della Casa Assoluta? Ero di Nessus? Provenivo dalla riva orientale del Gyoll o da quella occidentale? Da quale quartiere? L'Autarca era ancora vivo? E Padre Inire? Chi era l'arconte della città? Come stava andando la guerra? Avevo notizie di un certo comandante? E di un certo soldato? E di un certo chiliarca? Ero in grado di cantare, recitare, suonare uno strumento?
Come immaginerete facilmente, non seppi rispondere che a poche domande. Quando la prima ondata si fu esaurita, un vecchio con la barba grigia e una donna che appariva quasi altrettanto vecchia zittirono gli altri e li allontanarono. Il loro metodo, che avrebbe fallito in qualsiasi altra situazione, consisteva nel battere sulle spalle della gente, mostrare loro la parte più lontana della stanza e dire con voce chiara: — C'è tutto il tempo. — A poco a poco tutti tacquero e si portarono a quello che sembrava il limite massimo per poter sentire, e lo stanzone divenne silenzioso come quando si era aperta la porta.
— Io sono Lomer — disse il vecchio. Si schiarì rumorosamente la gola. — Questa è Nicarete.
Gli dissi il mio nome e quello di Jonas.
La vecchia doveva aver colto nella mia voce la preoccupazione.
— Sarà al sicuro, non ti preoccupare. Le ragazze lo cureranno al meglio, nella speranza che presto possa parlare con loro. — Rise, e il modo in cui gettò all'indietro la testa mi fece capire che un tempo doveva essere stata bella.
Iniziai a fare domande a mia volta, ma il vecchio mi fermò. — Vieni nel nostro angolo — disse. — Ci potremo sistemare comodamente e io potrò offrirti una tazza d'acqua.
Non appena pronunciò quella parola mi resi conto di avere una sete tremenda. Ci portò dietro il paravento di stracci più vicino alla porta e mi versò l'acqua da una brocca di terracotta dentro una delicata tazza di porcellana. Vidi alcuni cuscini e un piccolo tavolino, non più alto di una spanna.
— Domanda contro domanda — disse. — È la vecchia regola. Noi ti abbiamo detto i nostro nomi e tu ci hai detto i vostri, perciò ricominciamo. Perché vi hanno catturati?
Risposi che non lo sapevo, potevo solo supporre che fosse perché eravamo entrati nel giardino.
Lomer annuì. Aveva il colorito pallido tipico di coloro che non vedono mai il sole; con la barba lunga e i denti irregolari in qualsiasi altro luogo sarebbe apparso ripugnante, ma lì era nel suo ambiente quasi quanto le piastrelle corrose del pavimento. — Io sono qui per colpa della cattiveria della Castellana Leocadia. Ero il siniscalco della sua rivale, la Castellana Nympha, e quando lei mi condusse con sé qui alla Casa Assoluta per farmi analizzare i conti della tenuta mentre presenziava ai riti del filomate Phocas, la Castellana Leocadia mi prese in trappola con l'aiuto di Sancha che...
La vecchia Nicarete lo interruppe. — Guarda! — esclamò. — Lui la conosce!
La conoscevo. Era apparsa nella mia mente una sala rosa e avorio, con due pareti di vetro trasparente squisitamente incorniciato. I fuochi ardevano nei camini di pietra, affievoliti dai raggi del sole che passavano attraverso i vetri. La stanza era colma di un calore secco e dell'odore del legno di sandalo. Una vecchia avviluppata in numerosi scialli era seduta sopra uno scranno che pareva un trono; una caraffa di cristallo intagliato e diverse boccette scure erano al suo fianco su un tavolo intarsiato. — Una donna anziana con il naso grifagno — dissi. — La signora di Fors.
— La conosci davvero. — Lomer annuì adagio, come se stesse rispondendo alla domanda che lui stesso aveva posto. — Sei il primo, in tanti anni.
— Diciamo che la ricordo.
— Sì. — Il vecchio annuì. — Pare che adesso sia morta. Ma ai miei tempi era una giovane donna bella e sana. La Castellana Leocadia la obbligò a farlo, poi ci fece scoprire, con la collaborazione di Sancha. Lei aveva solo quattordici anni, e non le venne attribuita nessuna colpa. E comunque non avevamo fatto niente: lei aveva appena iniziato a svestirmi.
— Anche tu dovevi essere molto giovane — dissi.
L'uomo non rispose. Lo fece Nicarete per lui. — Aveva ventotto anni.
— E tu? — le domandai. — Per quale motivo sei qui?
— Io sono una volontaria.
La guardai, abbastanza stupito.
— Qualcuno deve pagare per la malvagità di Urth, diversamente il Nuovo Sole non arriverà mai. E qualcuno deve attrarre l'attenzione su questo posto e su altri simili. Appartengo a una famiglia di armigeri, che probabilmente si ricorda ancora di me, così le guardie devono rispettare me e tutti gli altri finché resto qui.
— Intendi dire che potresti andartene e che non lo farai?
— No — rispose la vecchia, scuotendo la testa. I suoi capelli erano bianchi, ma li teneva sciolti sulle spalle come le donne giovani. — Me ne andrò, ma alle mie condizioni: solo quando tutti coloro che si trovano qui da tanto tempo da aver dimenticato le loro colpe saranno liberati.
Io rammentai il coltello da cucina che avevo sottratto per Thecla e il filo cremisi che era fuoriuscito dalla sua porta nella nostra segreta e dissi: — È vero che qui i prigionieri dimenticano le loro colpe?
Lomer sollevò il capo. — Non è giusto! Domanda contro domanda... questa è la regola, la vecchia regola. Qui rispettiamo ancora le regole. Siamo gli ultimi della nostra generazione; ma finché resteremo qui, le regole manterranno la loro validità. Domanda contro domanda. Hai qualche amico che potrà darsi da fare per liberarti?
Dorcas se ne sarebbe sicuramente interessata, se avesse saputo dove mi trovavo. Il dottor Talos era mutevole come le figure che si formano nelle nubi, e proprio per quel motivo forse avrebbe cercato di farmi liberare pur senza avere un motivo preciso per prodigarsi. Il particolare di maggior rilievo era però il fatto che fossi un messaggero di Vodalus, e Vodalus aveva almeno un collaboratore nella Casa Assoluta... colui al quale avrei dovuto affidare il messaggio.
Mentre io e Jonas eravamo in viaggio, avevo cercato per due volte di gettare via l'acciarino, ma avevo scoperto che non potevo farlo. L'alzabo, a quanto pareva, aveva lanciato un altro sortilegio sulla mia mente. E in quel momento me ne rallegrai.
— Hai degli amici? O dei parenti? Se ne hai, forse potrai fare qualcosa per noi tutti.
— Forse ho qualche amico — risposi. — E forse cercherà di aiutarmi, se scoprirà che cosa mi è successo. È probabile che si sappia?
Parlammo a lungo; se dovessi riportare tutto, non finirei più il mio racconto. In quella stanza non c?è altro da fare che parlare e giocare a qualche gioco molto semplice, e i prigionieri continuano a fare quelle due cose fino a quando perdono ogni interesse e diventano come un pezzo di cartilagine che un affamato ha masticato per un intero giorno. Sotto molti aspetti, quei prigionieri vivono meglio dei clienti delle nostre segrete; durante il giorno non hanno paura di soffrire e nessuno di loro è solo. Ma dal momento che moltissimi si trovavano lì da lungo tempo mentre pochi dei nostri clienti venivano trattenuti a lungo, ne conseguiva che i secondi erano pieni di speranza, mentre i primi erano disperati.
Dopo dieci turni di guardia o anche più, le lampade incastrate nel soffitto iniziarono ad attenuarsi e io dissi a Lomer e a Nicarete che non riuscivo più a rimanere sveglio. Mi accompagnarono in un luogo distante dalla porta, particolarmente buio, e mi spiegarono che quello sarebbe stato il mio posto fino a quando uno degli altri prigionieri fosse morto e io avrei potuto ottenere una posizione migliore.
Mentre se ne andavano, sentii Nicarete domandare: — Verranno, questa notte? — Lomer non rispose, ma io non riuscii a capire ed ero troppo stanco per chiedere spiegazioni. I miei piedi mi dissero che a terra c'era un pagliericcio; mi sedetti e stavo per distendermi del tutto quando toccai con la mano un corpo vivo.
— Non ti spaventare, sono io — disse la voce di Jonas.
— Perché non hai detto niente? Ti ho visto muovere, ma non potevo lasciare quei due vecchi. Perché non ci hai raggiunto?
— Non ho detto niente perché stavo pensando. E non mi sono avvicinato perché dapprima non riuscivo a liberarmi delle donne che mi stavano intorno; poi sono state loro a non riuscire a staccarsi da me. Severian, devo andarmene.
— Tutti lo vogliono, credo — risposi. — Io lo vorrei, di certo.
— Ma io devo. — La mano sottile e dura strinse la mia. — Altrimenti mi ammazzerò o perderò la ragione. Ti sono stato amico, vero? — Ridusse la voce a un sussurro. — Il talismano che tieni nascosto... la gemma azzurra... riuscirà a liberarci? So che i pretoriani non l'hanno scoperta. Ho osservato mentre ti perquisivano.
— Non voglio tirarlo fuori — dissi. — Risplende troppo, al buio.
— Terrò sollevato uno dei nostri pagliericci in modo che ti faccia da schermo.
Aspettai fino a quando capii che il pagliericcio era stato sistemato, quindi estrassi l'Artiglio. Emanava una luce tanto tenue che avrei potuto celarla con una mano.
— Sta morendo? — chiese Jonas.
— No, è spesso così. Ma quando è attivo, come quando ha mutato l'acqua della nostra caraffa e quando ha suscitato tanta deferenza negli uomini-scimmia, brilla incredibilmente. Se anche riuscirà a farci evadere, non penso che lo farà adesso.
— Lo dobbiamo portare vicino all'entrata. Forse riuscirà a far saltare la serratura. — La voce di Jonas tremava.
— Più tardi, quando tutti dormiranno. Libererò anche loro, se riuscirò a liberare noi; ma se la porta non si aprirà, come credo che succederà, non voglio che gli altri sappiano dell'Artiglio. Adesso spiegami perché hai tanta fretta di andartene.
— Mentre tu parlavi con quei due vecchi, io sono stato interrogato da un'intera famiglia — mi spiegò Jonas. — C'erano diverse donne anziane, un uomo sui cinquant'anni, un altro sulla trentina, tre donne e un gran numero di bambini. Mi avevano condotto nella loro nicchia, vedi, e gli altri prigionieri non potevano accedervi senza essere stati invitati; e non lo erano. Immaginavo che mi avrebbero interrogato sugli amici che ho fuori, o sulla politica o sui combattimenti fra le montagne. Invece, io per loro ero solo un divertimento. Volevano sapere del fiume e dove ero stato e quanti indossavano vestiti simili ai miei. E i cibi, là fuori... mi hanno fatto delle domande sui cibi veramente ridicole. Avevo mai assistito alla macellazione degli animali? E gli animali supplicavano che li risparmiassero? Ed è vero che coloro che fanno lo zucchero portano spade avvelenate e si battono per difenderlo?
«Non avevano mai visto le api ed erano convinti che fossero grosse quanto i conigli.
«Dopo un po' ho iniziato a mia volta a fare domande e ho scoperto che nessuno di loro, nemmeno le donne più vecchie, era mai stato in libertà. A quanto pare, vengono lasciati qui insieme, uomini e donne, e hanno figli secondo il corso della natura. E mentre alcuni vengono portati via, la maggior parte di loro resta qui per tutta la vita. Non hanno nessuno al mondo, e non hanno la minima speranza di essere liberati. Anzi, non sanno nemmeno che cosa sia la libertà, e nonostante l'uomo più anziano e una ragazza mi abbiano confidato che vorrebbero uscire, non credo che ci rimarrebbero. Le vecchie sono prigioniere della settima generazione, almeno così mi hanno detto... ma una si è lasciata sfuggire che anche sua madre era prigioniera della settima generazione.
«Sotto certi punti di vista sono incredibili. Sono cresciuti in questo posto e ne sono stati plasmati, ma... — Jonas si interruppe e il udii il silenzio gravare su di noi. — Credo che si possano chiamare ricordi di famiglia. Tradizioni del mondo esterno, che sono state tramandate a loro, generazione dopo generazione, dai prigionieri che furono loro antenati. Non sanno più il significato di alcune parole, ma si aggrappano alle tradizioni e alle storie perché non hanno altro: hanno solo le storie e i loro nomi.
Jonas tacque. Io avevo rimesso nello stivale la minuscola scintilla dell'Artiglio ed eravamo immersi nella più assoluta oscurità. Il respiro di Jonas sembrava l'ansimare di un mantice.
— Ho domandato loro il nome del prigioniero da cui discendono. Era Kimleesoong... Non hai mai sentito questo nome?
Gli risposi di no.
— O forse qualcosa del genere? Prova a immaginare che fosse formato da tre parole.
— No, non mi viene in mente nulla — dissi. — La maggior parte delle persone che conosco ha il nome formato da un'unica parola, come te, a meno che una parte del nome fosse un titolo o una specie di soprannome, come quelli che si aggiungono per distinguere i vari Bolcan, Alto o cose del genere.
— Una volta mi hai detto che il mio nome ti sembrava strano. Kim Lee Soong sarebbe stato un nome molto comune quando io ero... ero giovane. Un nome comune, in posti che adesso sono sprofondati nel mare. Non hai mai sentito parlare della mia nave, Severian? era la Nuvola Fortunata.
— Una nave-bisca? No, ma...
Il mio sguardo venne attratto da un barlume di luce verdognola, talmente fievole che era scarsamente visibile persino in quell'oscurità. Immediatamente nella grande camera si alzò un mormorio di voci riecheggiante. Sentii che Jonas si alzava in piedi e lo imitai.
Non appena mi fui raddrizzato venni accecato da un fuoco azzurro. Il dolore che provai fu il più intenso che abbia mai sentito e se non fossi stato vicino al muro sarei caduto.
Un poco più distante il fuoco azzurro sfolgorò una seconda volta e una donna urlò.
Jonas bestemmiava... almeno, il tono della sua voce mi disse che lo stava facendo, nonostante stesse parlando in lingue che non conoscevo. Udii i suoi stivali riecheggiare sul pavimento. Ci fu un altro lampo e riconobbi le scintille sfolgoranti che avevo visto il giorno in cui il Maestro Gurloes, Roche e io avevamo sottoposto Thecla al «rivoluzionario». Sicuramente Jonas urlò come avevo fatto io, ma la confusione era diventata tale che non riuscii a cogliere la sua voce.
La luce verdognola aumentò d'intensità. Mentre la osservavo, ancora semiparalizzato dal dolore e straziato dalla paura più forte che avessi mai provato, diede forma a un volto mostruoso che mi fissava minacciosamente con gli occhi grandi come piatti; quindi svanì veloce nel buio.
Tutto fu più terrificante di quanto la mia penna potrebbe dire anche se continuassi in eterno a parlarne. Era la paura della cecità, oltre al dolore, a pesare su di noi, anche se in pratica eravamo già tutti ciechi. Non c'erano luci e non ne potevamo accendere nemmeno una. Nessuno possedeva una candela o qualcosa con cui poter appiccare il fuoco a un'esca. Nella stanza cavernosa le voci urlavano, piangevano e pregavano. In mezzo a quel chiasso folle udii riecheggiare la limpida risata di una giovane donna; poi tacque.
XVI
JONAS
Bramavo la luce come un affamato brama il cibo e infine mi azzardai a estrarre l'Artiglio. Probabilmente sarebbe meglio dire che fu l'Artiglio stesso a impormi quel gesto; pareva che avessi perso il controllo della mia mano, quando la infilai nello stivale per afferrare la pietra.
Immediatamente il dolore cessò e una luce azzurra iniziò ad affluire. Quando gli altri sventurati videro quel chiarore ripresero a gridare, convinti di dover subire nuovi tormenti. Riposi la gemma nello stivale e quando la sua luce non fu più visibile iniziai a cercare Jonas a tentoni.
Contrariamente a quello che avevo immaginato, non era svenuto, ma era steso a terra in preda alle convulsioni a una ventina di passi dal luogo in cui avevamo riposato poco prima. Lo riportai là — era incredibilmente leggero, notai — e dopo aver coperto entrambi con il mio mantello gli toccai la fronte con l'Artiglio.
Alcuni istanti dopo si mise a sedere. Gli spiegai che doveva riposare e che quello che era entrato nella prigione era scomparso.
Jonas si mosse e sussurrò: — È necessario dare energia ai compressori, prima che l'aria diventi troppo pesante.
— È tutto a posto — gli garantii. — E tutto a posto, Jonas. — Provavo un po' di vergogna nel farlo, ma lo stavo trattando come molti anni prima il Maestro Malrubius trattava me, il più giovane degli apprendisti.
Un oggetto freddo e duro mi toccò il polso, muovendosi come se fosse animato. Lo strinsi: si trattava della mano d'acciaio di Jonas che stava cercando la mia. — Sento il peso! — La sua voce stava acquistando intensità. — Devono essere solo le luci. — Si volse e udii la sua mano sbattere contro la parete. Iniziò a parlare da solo, in un linguaggio nasale e monosillabico che non compresi.
Mi feci forza ed estrassi nuovamente l'Artiglio per toccarlo ancora sulla fronte. Era tenue come quando l'avevamo guardato la prima volta e Jonas non migliorò; ma dopo un po' di tempo riuscii a tranquillizzarlo e finalmente, quando tutti gli altri presenti nella stanza si furono placati, ci sdraiammo per dormire.
Quando mi svegliai, le lampade fioche erano accese, nonostante provassi la sensazione che fuori fosse ancora notte o al massimo il primo mattino.
Jonas era sdraiato vicino a me e stava ancora dormendo. Nella sua tunica si apriva un lungo strappo e attraverso quello notai l'ustione provocata dal fuoco azzurro. Rammentando la mano mozzata dell'uomo-scimmia, mi accertai che nessuno ci stesse osservando e toccai la scottatura con l'Artiglio.
Alla luce delle lampade, la gemma brillava molto più della sera prima e nonostante la cicatrice nera non scomparve del tutto, si assottigliò e la carne, ai margini, divenne meno infiammata. Per raggiungere l'estremità inferiore della ferita, dovetti scostare un lembo di stoffa.
Quando vi feci penetrare la mano, udii un lieve suono: la pietra aveva toccato qualcosa di metallico. Spostai ancora leggermente il tessuto e vidi che la pelle del mio amico terminava bruscamente, come finisce l'erba ai margini di una grande pietra, per lasciare il posto all'argento lucente.
Il mio primo pensiero fu che si trattasse di una corazza, ma ben presto mi resi conto che non era così. Il metallo sostituiva la carne umana come faceva con la mano destra. Non riuscii a vedere fino a dove arrivasse e non osavo insistere a toccargli le gambe per paura di svegliarlo.
Riposi l'Artiglio e mi alzai. Volevo restare da solo per avere il tempo di pensare, così mi allontanai da Jonas e mi avviai verso il centro della stanza. Già il giorno precedente mi era sembrato un luogo strano, mentre tutti erano svegli e in movimento. In quel momento mi apparve ancora più insolito, una camera irregolare, piena di angoli strani, schiacciata sotto il pesante soffitto. Sperando che un po' di esercizio avrebbe rimesso in moto la mia mente, come spesso mi succede, presi a camminare in lungo e in largo, avanzando a passo leggero per non svegliare nessuno.
Avevo fatto una quarantina di passi quando notai un oggetto che appariva completamente fuori luogo in quella massa di persone malandate e di sudici pagliericci. Era una sciarpa da donna fatta di una ricca e morbida stoffa color pesca. Sarebbe impossibile descrivere il suo profumo, che non era quello dei frutti o dei fiori di Urth pur essendo piacevolissimo.
Stavo ripiegando quella bella sciarpa per metterla nella mia borsa quando udii una voce infantile: — Porta sfortuna. Moltissimo. Non lo sai?
Mi guardai intorno, abbassando lo sguardo, e vidi una bimbetta con il viso emaciato e degli scintillanti occhi neri troppo grandi per lei. — Che cosa porta sfortuna, padroncina? — chiesi.
— Impossessarsi di quello che si trova. Loro tornano sempre a cercarlo. Perché sei vestito di nero?
— È fuliggine, il colore ancora più scuro del nero. Dammi la mano e te lo farò vedere. Ecco, vedi che sembra sparire quando vi passo sopra l'orlo del mantello?
La sua piccola testa, che sembrava troppo grande per quelle spalle gracili, si chinò solennemente. — I seppellitori vestono di nero. Tu sei uno di loro? Quando venne sepolto il navigatore c'erano carri neri e persone vestite di nero. Hai mai visto un funerale del genere?
Mi inginocchiai per guardare meglio quel visino serio. — Nessuno indossa abiti di fuliggine ai funerali, signorina, per timore di essere scambiato per un membro della mia corporazione, cosa che sarebbe un'offesa nei confronti del morto... quasi sempre. Ecco la sciarpa. Guarda com'è bella. Sono sempre così le cose che lasciano?
La bambina assentì. — Sono le fruste a lasciarle, e tu le devi infilare nello spazio vuoto sotto le porte, perché loro tornano a riprendersele. — Aveva distolto lo sguardo per fissare la cicatrice che avevo sulla guancia destra.
Toccai la ferita. — Sono queste le fruste? Quelli che lo fanno? Chi sono? Io ho visto una faccia verde.
— Anch'io l'ho notata. — La sua risata era lo squillo di minuscole campane. — Pensavo che volesse mangiarmi.
— Ora non mi sembri spaventata.
— La mamma dice che le cose che vediamo nel buio non significano niente... sono differenti ogni volta. Sono le fruste quelle che fanno male e la mia mamma mi protegge dietro di lei, fra il suo corpo e il muro. Il tuo amico si sta svegliando. Perché sembri così diverso?
(Rammentai di aver riso con altre persone: tre erano giovani uomini, due erano donne mie coetanee. Guibert mi offriva una frusta con il manico pesante e un flagello di rame intrecciato. Lollian stava preparando l'uccello di fuoco che avrebbe fatto girare all'estremità di una lunga corda.)
— Severian! — Era Jonas e io corsi da lui. — Sono contento che tu sia qui — mi disse, quando mi inginocchiai al suo fianco. — Io... pensavo che te ne fossi andato.
— Non lo potrei fare, ricordi?
— Sì — disse Jonas. — Ora me lo ricordo. Sai come si chiama questo luogo? Me l'hanno detto ieri. L'anticamera. Ma vedo che lo sapevi già.
— No.
— Hai annuito.
— Mi è tornato in mente il nome quando l'hai pronunciato e ho capito che era giusto. Io... Thecla era stata qui, immagino. Non lo aveva mai ritenuto un posto strano, per essere una prigione, e credo che fosse l'unica che aveva mai visto, prima di essere portata alla nostra torre; ma per me è strana. Mi sembra che le celle singole siano molto più pratiche, o per lo meno molte camere separate. Però credo che sia solo un mio pregiudizio.
Jonas si sollevò, sedendosi con la schiena appoggiata alla parete. Sotto l'abbronzatura, il suo volto era pallido e ricoperto di sudore. Disse: — Non riesci a capire come sia nato questo posto? Guardati intorno.
Lo feci, ma non notai niente di diverso da quello che avevo già osservato in precedenza: la grande stanza dalle lampade tenui.
— Una volta era un appartamento... anzi, diversi appartamenti, probabilmente. Le pareti sono state abbattute e un nuovo pavimento è stato sovrapposto a quello preesistente. Sono certo che quello è ciò che noi chiamavamo controsoffitto. Se dovessimo levare uno dei pannelli, vedresti più in alto la struttura originaria.
Mi alzai e provai, ma nonostante arrivassi a sfiorare i pannelli rettangolari con la punta delle dita, non ero abbastanza alto per premerli con la forza necessaria. La bambina, che aveva continuato a guardarci a una decina di passi di distanza e che sicuramente aveva sentito tutto, disse: — Sollevami e lo farò io.
Corse verso di noi. La sollevai e, tenendola per la vita, riuscii ad alzarla senza fatica sopra la mia testa. Per alcuni istanti le sue manine lottarono contro il riquadro del soffitto, poi il pannello si spostò, facendo cadere una pioggia di polvere. Più oltre si vedeva una rete di sottili sbarre metalliche e al di là di quelle un soffitto a volta, ricco di modanature e decorato da un affresco ormai scrostato raffigurante nuvole e uccelli. La bambina non riuscì più a reggere il pannello che cadde a terra, provocando un'altra pioggia di polvere. Non vidi più niente.
Dopo aver lasciato andare la bambina, mi rivolsi nuovamente a Jonas. — Hai ragione. Quel vecchio soffitto appartiene a una stanza molto più piccola di questa. Come facevi a saperlo?
— Ho parlato con questa gente, ieri. — Jonas sollevò le mani, quella d'acciaio e quella di carne, e parve sfregarsi il volto con entrambe. — Manda via la bambina, se non ti dispiace.
Dissi alla piccola di tornare dalla madre, anche se penso che lei si limitò ad attraversare la stanza per poi tornare indietro, restando attaccata alla parete, fino a quando riuscì ad ascoltare di nuovo.
— Mi sento come se mi stessi risvegliando — disse Jonas. — Ieri, credo di averti detto che mi sembrava di impazzire. Penso che forse sto ritrovando la ragione, e questo è altrettanto terribile se non di più. — Era seduto sul pagliericcio che gli aveva fatto da letto; si lasciò andare contro il muro, come un cadavere appoggiato a un tronco d'albero. — Quando ero a bordo della nave, leggevo. Una volta lessi una storia. Non credo che tu la conosca. Qui sono passate troppe chiliadi.
— Non penso di conoscerla — dissi.
— È molto diversa da questo, eppure è molto simile. Strane, piccole abitudini... alcune delle quali non erano poi così piccole. Strane istituzioni. Lo domandai alla nave e la nave mi diede un altro libro.
Jonas stava ancora sudando, perciò pensai che la sua mente divagasse. Gli detersi la fronte con la pezza di flanella che usavo per pulire la mia spada.
— Regnanti ereditari e subordinati ereditari, e ogni genere di strani funzionari. Lancieri dai lunghi baffi bianchi. — Per un attimo, sul suo volto comparve l'ombra del suo vecchio sorriso. — Il Cavaliere Bianco scivola lungo l'attizzatoio. Mantiene a fatica l'equilibrio, come gli era stato detto dal taccuino del re.
All'estremità opposta della stanza colsi un movimento. I prigionieri che stavano dormendo o chiacchierando sottovoce in piccoli gruppi si alzarono e si diressero verso quel punto. Jonas sembrò supporre che vi sarei andato anch'io e mi strinse la spalla con la mano sinistra; era debole come quella di una donna. — Non iniziava così. — La sua voce tremante acquistò un'improvvisa intensità. — Severian, il re era eletto nella Piazza d'Armi. I conti erano nominati dai re. Questa era la cosiddetta età dell'oscurantismo. Un barone era semplicemente un uomo libero della Lombardia.
La bambina che avevo sollevato fino al soffitto comparve di colpo e gridò verso di noi: — C'è da mangiare. Non venite? — Io mi alzai e dissi: — Andrò a prendere qualcosa. Forse ti farà sentire meglio.
— Quell'abitudine mise radici. È durata troppo a lungo. — Mentre mi incamminavo in mezzo alla folla sentii Jonas dire: — La gente non sapeva.
I prigionieri facevano ritorno con piccole pagnotte sotto il braccio. Quando arrivai alla porta, la folla si era diradata e riuscii a vedere che i battenti erano aperti. Nel corridoio, un inserviente vestito con una mitera di garza bianca inamidata sorvegliava un carrello d'argento. I prigionieri uscivano dall'anticamera per girare intorno all'uomo. Li seguii, per un istante pensando di essere stato liberato.
L'illusione scomparve quasi subito. Le due estremità del corridoio erano bloccate dagli hastarii e altri due soldati incrociavano le armi davanti alla porta che conduceva al Pozzo delle Campanelle Verdi.
Mi sentii sfiorare un braccio. Mi volsi e vidi la bianca Nicarete. — Devi prendere qualcosa — mi disse. — Almeno per il tuo amico. Non portano mai abbastanza cibo per tutti.
Annuii. Allungai le braccia sopra la testa di diverse persone e riuscii ad afferrare un paio di pagnotte appiccicose. — Quante volte al giorno portano da mangiare?
— Due. Ieri tu sei arrivato dopo il secondo pasto. Tutti cercano di prendere poco, ma non basta mai ugualmente.
— Ma questi sono dolci — commentai. I polpastrelli delle mie dita si erano impiastricciati di glassa zuccherata e insaporita con limone, noce moscata e curcuma.
La vecchia assentì. — È sempre così, sebbene i sapori cambino ogni giorno. Quel recipiente d'argento contiene del caffè e sul ripiano inferiore del carrello ci sono le tazze. La maggior parte di coloro che sono rinchiusi qui dentro non lo apprezzano e non lo bevono. Immagino che alcuni di loro non sappiano nemmeno che cosa sia.
Tutti i dolciumi erano stati presi e anche gli ultimi prigionieri, a parte Nicarete e me, avevano fatto ritorno nello stanzone. Presi una tazza e la riempii. Il caffè era molto forte, bollente e scuro, dolcificato con mieie che mi parve di timo.
— Non lo bevi?
— Lo voglio far bere a Jonas. Faranno obiezioni se porto via la tazza?
— Non credo — rispose Nicarete, ma mentre parlava mosse il capo verso i soldati.
Avevano spostato le lance in posizione di all'erta e i fuochi delle punte brillavano più intensi. Tornai nell'anticamera insieme alla vecchia e i battenti si richiusero alle nostre spalle.
Ricordai a Nicarete che il giorno prima mi aveva detto di essere lì di sua spontanea volontà, e le domandai se sapesse il motivo per cui i prigionieri venivano nutriti a dolciumi e caffè meridionale.
— Lo sai anche tu — rispose lei. Lo capisco dalla tua voce.
— No. Semplicemente immagino che io sappia Jonas.
— Forse lo sa davvero. Il fatto è che questa prigione non dovrebbe affatto essere una prigione. Molto tempo fa, prima ancora del regno di Ymar, credo, era lo stesso Autarca a giudicare chiunque venisse accusato di un reato commesso all'interno della Casa Assoluta. Probabilmente gli autarchi erano convinti che in tal modo avrebbero scoperto gli intrighi orditi contro di loro. O forse speravano che, trattando con equanimità quelli che vivevano intorno a loro, sarebbero riusciti a scongiurare l'odio e a eliminare l'invidia. I casi più importanti erano risolti in breve tempo, mentre i colpevoli dei reati meno gravi venivano rinchiusi qui in attesa...
La porta, che si era chiusa da pochissimi istanti, si stava riaprendo. Un ometto lacero e senza denti venne sospinto all'interno. Cadde bocconi, quindi si rialzò e si gettò ai miei piedi. Era Hethor.
Come era successo quando eravamo arrivati io e Jonas, i prigionieri si affollarono intorno a lui, lo sollevarono e gli urlarono mille domande. Nicarete, a cui si aggiunse subito Lomer, li fece allontanare e invitò Hethor a presentarsi. Lui strinse il berretto fra le mani (facendomi tornare in mente la mattina in cui mi aveva trovato accampato sull'erba vicino alla Croce di Ctesiphon) e disse: — Io sono lo schiavo del mio padrone. Sono il v-vagabondo Hethor, sfinito, s-soffocato dalla polvere e due volte abbandonato. — Mentre parlava mi guardava con quegli occhi luminosi e folli, simile ai ratti glabri della Castellana Lelia, i ratti che correvano in tondo e si afferravano per la coda quando qualcuno batteva le mani.
Ero talmente nauseato dalla sua vista e tanto angustiato per Jonas che mi allontanai subito e tornai dove avevamo dormito. Quando mi misi a sedere l'immagine di un ratto tremante era ancora vivida nella mia mente; poi, come se si fosse resa conto che era solo un'immagine riaffiorata dai morti ricordi di Thecla, svanì come il pesce di Domnina.
— Qualcosa non va? — mi domandò Jonas. Sembrava un po' più in forze.
— Sono disturbato dai miei pensieri.
— Che brutta faccenda per un torturatore, ma sono contento di godere della tua compagnia.
Gli appoggiai sulle ginocchia le pagnotte dolci e gli misi la tazza fra le mani. — Caffè di città... senza pepe. È così che lo preferisci?
Jonas assentì, prese la tazza e bevve adaeio. — Tu non lo assaggi?
— Ho già bevuto il mio. Mangia il pane. È molto gustoso.
Addentò una pagnotta. — Ho bisogno di parlare a qualcuno, perciò parlerò con te, anche se alla fine del mio racconto mi giudicherai un mostro. Anche tu sei un mostro, lo sai, amico Severian? Sei un mostro perché tu fai una professione di quello che la gente fa solo per passatempo.
— Tu sei pieno di toppe metalliche — dissi. — Non solo la mano. L'ho scoperto da diverso tempo, amico mostro Jonas. Adesso mangia il pane e bevi il caffè. Penso che ci vorranno otto turni di guardia prima che ci portino ancora da mangiare.
— Precipitammo, capisci? Su Urth era trascorso talmente tanto tempo che non esisteva più nemmeno un porto, non c'era più nessun attracco. Così persi la mano. E il volto. I miei compagni mi rimisero a posto come poterono, ma mancavano i pezzi, c'era solo materiale biologico. — Con l'arto d'acciaio che io avevo sempre pensato poco più utile di un uncino, sollevò la mano di muscoli e osso come se fosse qualcosa di sudicio da buttare via.
— Hai la febbre. La frusta ti ha ferito, ma guarirai, e allora usciremo da qui e tu ritroverai Jolenta.
Jonas annuì. — Quando eravamo vicini all'estremità della Porta della Misericordia, in tutta quella confusione, lei ha girato la testa e il sole le ha fatto brillare una guancia. Ricordi?
Gli risposi che ricordavo.
— Prima di allora non avevo mai amato; mai, in tutto il tempo trascorso da quando il nostro equipaggio si disperse.
— Se non riesci a mangiare altro, ti consiglio di riposare un po'.
— Severian. — Jonas mi strinse la spalla come aveva già fatto poco prima, ma lo fece con la mano d'acciaio; stringeva come una morsa. — Parla con me. Non tollero la confusione dei miei pensieri.
Parlai a lungo di tutto quello che mi passava per la mente, senza ricevere risposta. Poi mi ricordai di Thecla, che era spesso altrettanto depressa, e mi sovvenni che allora avevo letto per lei. Estrassi dalla borsa il libro marrone e lo aprii a caso.
XVII
LA LEGGENDA DELLO STUDIOSO E DI SUO FIGLIO
Parte prima — La Città dei Maghi
Una volta, ai margini del mare inseminato, esisteva una città dalle torri pallide. In essa vivevano i sapienti. Ora, quella città aveva una legge e una maledizione. La legge era questa: per tutti coloro che dimoravano fra le sue mura, la vita offriva due sole possibilità: potevano entrare a far parte dei sapienti e indossare cappucci di innumerevoli colori, oppure dovevano abbandonare la città per avventurarsi nel mondo avverso.
Un tale aveva studiato a lungo tutta la magia conosciuta nella città, che era quasi tutta la magia nota al mondo, e si stava avvicinando al momento in cui avrebbe dovuto fare la sua scelta. Nel mezzo dell'estate, quando i fiori dalle corolle gialle e allegre spuntano persino dalle cupe mura affacciate sul mare, egli si recò da uno dei sapienti che aveva il viso velato da una miriade di colori da talmente tanto tempo che oramai quasi nessuno lo ricordava, e che pure da lungo tempo aveva insegnato allo studioso per il quale si stava approssimando il momento della scelta. — E gli disse: — Come potrò, pur non sapendo niente, ottenere un posto fra i sapienti della città? Io desidero studiare incantesimi che non sono sacri per il resto della mia vita e non intendo avventurarmi nel mondo avverso a scavare e a portare pesi per guadagnarmi il pane.
Allora il vecchio scoppiò a ridere e rispose: — Ricordi, quando eri poco più di un ragazzo, come ti insegnai l'arte in virtù della quale doniamo la carne ai figli, traendoli dalla sostanza dei sogni? Come eri abile a quei tempi e come eccellevi su tutti gli altri! Vai adesso, e dona la carne a un figlio, e io lo mostrerò agli incappucciati. Allora tu sarai uno di noi.
Ma lo studioso ribatté: — La prossima stagione. Lasciamo trascorrere un'altra stagione e poi farò tutto quello che mi hai detto.
Giunse l'autunno e i sicomori della città dalle torri pallide, che le alte mura proteggevano dai venti marini, persero le foglie simili all'oro lavorato dai loro padroni. Le oche selvatiche si ripararono fra le torri pallide, quindi arrivarono le ossifraghe e i lammergeir. Allora il vecchio fece chiamare nuovamente colui che era stato suo allievo e disse: — Ora, sicuramente, è il momento di donare la carne a una creatura dei sogni, come ti ho consigliato. Gli altri incappucciati si stanno spazientendo. A parte noi, tu sei il più vecchio della città ed e probabile che se non agirai ora, prima dell'inverno ti scacceranno.
Ma lo studioso rispose: — Devo studiare ancora per poter trovare quello che sto cercando. Non puoi concedermi un'altra stagione? — Il vecchio che era stato suo insegnante pensò alla bellezza degli alberi che per tanti anni avevano dilettato i suoi occhi al pari delle candide membra femminili.
Infine passò anche l'autunno dorato e l'inverno giunse altezzoso dalla sua gelida capitale, dove il sole rotola lungo l'orlo del mondo come una palla di gingilli e i fuochi che fluiscono fra le stelle e Urth infiammano il ciclo. Il suo tocco tramutò le onde in acciaio e la città dei maghi gli diede il benvenuto appendendo stendardi di ghiaccio ai balconi e ammassando neve sui tetti. Il vecchio mandò nuovamente a chiamare il suo discepolo e questi rispose come le volte precedenti.
Venne la primavera e recò gioia in tutta la natura; ma la città fu parata a lutto e sui maghi si abbatterono l'odio e la repulsione per i loro poteri, che rodono il cuore come vermi. Perché la città aveva una sola legge e una sola maledizione, e mentre la legge regnava per tutto l'anno, la maledizione prendeva il sopravvento in primavera. In quella stagione, le più belle fanciulle della città, le figlie dei maghi, venivano vestite di verde e mentre i tiepidi venti primaverili giocavano con i loro capelli d'oro, esse oltrepassavano scalze la porta della città e scendevano lo stretto sentiero che conduceva al porto per poi salire a bordo della nave con le vele nere che le stava aspettando. E dal momento che avevano i capelli d'oro e i vestiti di paglia verde, e poiché ai maghi sembrava che venissero mietute come cereali, venivano chiamate le Fanciulle Mais.
Quando l'uomo che era stato a lungo discepolo ma che ancora non indossava il cappuccio sentì le trenodie e i lamenti, e guardando dalla finestra scorse le fanciulle, abbandonò tutti i libri e iniziò a tracciare figure quali nessun uomo aveva mai visto, e prese a scrivere in molti linguaggi, come gli era stato insegnato in passato dal suo maestro.
Parte seconda — La nascita dell'eroe
L'uomo lavorò per giorni e giorni. Quando l'alba spuntava alla finestra, la sua penna faticava già da molte ore; e quando la luna s'incastrava con il dorso gobbo fra le torri pallide, la sua lampada risplendeva luminosa. In principio gli parve che tutta la scienza infusa in lui dal suo maestro l'avesse abbandonato, perché dalle prime luci del giorno fino al chiaro di luna era solo nella sua casa; l'unica compagna era una falena che talvolta andava a svolazzare intorno alla fiamma della sua candela, mostrandogli le insegne della Morte.
In un secondo tempo, quando gli capitava di addormentarsi al suo tavolo, nei sogni iniziò a penetrare un altro essere; e l'uomo, sapendo chi fosse, lo accoglieva con gioia, nonostante quei sogni fossero fugaci e ben presto li dimenticava.
Continuava a lavorare e quello che egli si sforzava di creare gli si radunava intorno come il fumo si riunisce intorno al combustibile gettato su un fuoco quasi spento. A volte (soprattutto quando lavorava molto presto o molto tardi e quando, dopo aver deposto tutti gli strumenti della sua arte, si stendeva finalmente sul piccolo giaciglio assegnato a coloro che non avevano ancora ricevuto il cappuccio multicolore) distingueva in una stanza vicina il passo dell'uomo che desiderava chiamare alla vita.
Con il passare del tempo tali apparizioni, dapprima rare e limitate quasi esclusivamente alle notti nelle quali il tuono rombava fra le torri pallide, si fecero più usuali; e lo studioso imparò a riconoscere i segnali legati alla presenza dell'altro: un libro che da decenni non veniva tolto dallo scaffale e che all'improvviso vedeva vicino a una sedia; finestre e porte che sembravano spalancarsi da sole; un antico alfange, che per anni era stato una decorazione poco più pericolosa di un dipinto trompe-l'oeil, perfettamente ripulito dalla sua patina, luminoso e affilato di recente.
In un dorato pomeriggio, mentre il vento giocava gli innocenti giochi dell'infanzia con i sicomori rivestiti delle nuove foglie, l'uomo sentì bussare alla porta dello studio. Senza avere il coraggio di voltarsi e di rivelare con la sua voce nemmeno la minima parte di quello che provava, e senza smettere di lavorare, gridò: — Entra.
Come le porte si aprono a mezzanotte quando nessun essere vivente si muove, la porta iniziò a schiudersi lentamente, poco alla volta. Ma, mentre si muoveva, sembrava acquistare energia, così che quando alla fine si aprì (a giudicare dal suono) abbastanza da poter infilare una mano nella stanza, sembrò che la brezza giocosa stesse entrando dalla finestra per infondere vita nel suo cuore di legno. E quando si aprì ancora di più, come l'uomo dedusse dal rumore, in modo che un ilota diffidente potesse entrare con un vassoio, parve che un vento marino di tempesta la prendesse e la sbattesse contro la parete. Allora l'uomo udì i passi rapidi e decisi alle sue spalle e una voce deferente e giovane, ma già profonda e matura, lo apostrofò dicendo: — Padre, io non amo disturbarti mentre sei intento al tuo lavoro. Ma il mio cuore è tristemente turbato, ormai da molti giorni, e per l'amore che mi porti ti scongiuro di perdonare la mia intrusione e di darmi consiglio nel mio dubbio.
Solo allora lo studioso ebbe il coraggio di voltarsi e vide dinnanzi a sé un giovane dal portamento maestoso, con le spalle larghe e la figura robusta. La bocca era autoritaria, gli occhi luminosi e intelligenti, e rutto il viso esprimeva coraggio. La sua fronte era ornata da quella corona che è invisibile a ogni occhio e che tuttavia può essere scorta anche dai ciechi; la corona senza prezzo che attira i coraggiosi intorno a un paladino e che rende valorosi i deboli. Allora lo studioso disse: — Figlio mio, non aver paura di disturbarmi, né ora né mai, perché non c'è nulla sotto il cielo che io gradisca vedere più del tuo volto. Cosa ti turba?
— Padre — rispose il giovane, — tutte le notti, ormai da molto tempo, il mio sonno è rotto dalle urla di numerose donne e spesso ho visto, come un serpente attratto dalle note di un flauto, una colonna verde scivolare sulla scogliera sotto la città, fino al porto. E a volte, in sogno, mi è concesso avvicinarmi, e allora vedo che tutte coloro che camminano in quella colonna sono donne bionde, che piangono, gridano e ondeggiano, e sembrano un campo di grano giovane e percosso da un vento lamentoso. Quale è il significato di questo sogno?
— Figlio mio — rispose lo studioso, — è giunto il momento di rivelarti quello che finora ti ho tenuto celato nel timore che, spinto dall'impulsività tipica della gioventù, tu osassi troppo prima del momento giusto. Sappi che questa città è dominata da un orco, il quale ogni anno esige in tributo le sue figlie più belle, come tu hai potuto vedere nel sogno.
A tali parole gli occhi del giovane lampeggiarono. — E chi è questo orco, quale è il suo aspetto e dove vive? — chiese.
— Nessuno conosce il suo nome, dal momento che nessuno gli si può avvicinare abbastanza. La sua forma è quella di un naviscaput, che agli uomini appare come una nave con un unico castello sul ponte, in realtà la testa sulle spalle, e con un solo occhio nel castello. Il suo corpo nuota nelle acque più profonde con la razza e lo squalo, e ha le braccia più lunghe dei più alti alberi delle navi e gambe simili a piloni che raggiungono il fondo del mare. Il suo porto è un'isola dell'occidente, dove un canale con molte diramazioni, dividendosi e dividendosi ancora, penetra nell'entroterra. È su quell'isola, così dice il mio sapere, che sono costrette a prendere dimora le Fanciulle Mais, e là egli sta all'ancora in mezzo a loro, girando gli occhi a destra e a sinistra per vederle in preda alla disperazione.
Parte terza — L'incontro con la principessa
Allora il giovane si mise a radunare intorno a sé altri giovani della città dei maghi per formare un equipaggio e ottenne da coloro che indossavano i cappucci multicolori una solida nave; per tutta quell'estate lui e i suoi compagni la corazzarono e montarono sulle sue fiancate l'artiglieria più potente, si esercitarono ad alzare e a regolare le vele e a sparare con i cannoni, finché la nave obbedì ai loro comandi come una giumenta domata. Spinti dalla pietà che provavano per le Fanciulle Mais, la chiamarono Terra delle Vergini.
Finalmente, quando le foglie dorate si staccarono dai rami dei sicomori (come l'oro fabbricato dai maghi infine cade dalle mani degli uomini) e le grigie oche selvatiche sorvolarono le torri pallide della città seguite dai lammergeir e dalle ossifraghe, i giovani partirono. Molte avventure che vissero lungo la strada delle balene non possono trovare posto qui, ma un giorno le vedette scorsero davanti a loro una terra di bionde colline costellate di verde e mentre si schermavano con le mani per guardarle, il verde aumentava. Allora il giovane a cui lo studioso aveva donato la carne capì che quella era davvero l'isola dell'orco e che le Fanciulle Mais si stavano affrettando verso la spiaggia perché avevano visto la sua vela.
Vennero preparati i grandi cannoni e le bandiere della città dei maghi, gialle e nere, furono issate sui pennoni. Si avvicinarono sempre più fino a quando, per paura di incagliarsi nella sabbia, virarono e iniziarono a costeggiare l'isola. Le Fanciulle Mais li seguirono, chiamando le loro sorelle fino a coprire tutta la terra come dei veri cereali. Ma il giovane non dimenticò quello che gli era stato detto: che l'orco viveva fra le giovani.
Dopo aver navigato per mezza giornata, doppiarono una punta e videro che la costa si divideva formando un profondo canale senza fine che si snodava tra le dolci colline dell'isola fino a scomparire allo sguardo. All'entrata del canale si innalzava un padiglione di marmo bianco circondato da giardini, e là il giovane ordinò ai compagni di calare l'àncora, quindi scese a terra.
Aveva appena posato il piede sul terreno dell'isola quando gli andò incontro una donna bellissima, con la carnagione olivastra, gli occhi splendenti e i capelli neri. Le rivolse un inchino e disse: — Principessa, o regina, vedo che non sei una delle Fanciulle Mais. I loro abiti sono verdi, i tuoi neri. E anche se indossassi un vestito verde, ti distinguerei comunque da loro perché i tuoi occhi non sono gonfi di dolore e la luce che vi splende non è quella di Urth.
— Tu dici il vero — rispose la principessa, — perché io sono Noctua, la figlia della Notte, e sono anche figlia di colui che tu sei venuto a uccidere.
— Allora non è possibile per noi essere amici, Noctua — disse il giovane. — Ma almeno non siamo nemici. — Infatti, pur non riuscendo a capirne il motivo, essendo fatto della sostanza dei sogni si sentiva attratto da lei; e lei, che aveva negli occhi la luce delle stelle, era attratta da lui.
A quelle parole la principessa allargò le braccia e spiegò: — Sappi che mio padre ebbe mia madre con la forza e mi trattiene qui contro la mia volontà; e avrei già perso la ragione se mia madre non venisse a me al termine di ogni giorno. Se tu non leggi angoscia nei miei occhi, è solo perché la tengo racchiusa nel mio cuore. Per acquistare la libertà, ti spiegherò come combattere contro mio padre in modo da poter vincere.
I giovani della città dei maghi tacquero e si radunarono intorno a lei.
— Per prima cosa devi sapere che i canali di quest'isola hanno talmente tante svolte che non è possibile farne una mappa. Non puoi assolutamente servirti delle vele per percorrerli, ma devi accendere le caldaie.
— Questo non è un problema — disse il giovane incarnato dai sogni. — Metà di una foresta è stata abbattuta per colmare la nostra stiva e le grandi ruote che vedi gireranno su queste acque con movimenti da gigante.
La principessa tremò e disse: — Oh, non parlare di giganti, perché non sai quello che stai dicendo. Molte navi uguali alla tua sono giunte qui, e adesso i fondali fangosi di quei canali infiniti biancheggiano di teschi. Mio padre le lascia vagare fra le isolette e gli stretti fino a quando terminano il carburante, per quanto copioso esso sia; poi di notte, quando può vedere gli equipaggi al chiarore dei fuochi morenti ma non può essere visto a sua volta, li annienta.
Il giovane incarnato dai sogni si turbò e disse: — Lo cercheremo come abbiamo giurato di fare. Ma non c'è un modo per sfuggire a una simile sorte?
La principessa fu colta da pietà per lui, perché tutti coloro che sono fatti della sostanza dei sogni appaiono belli alle figlie della Notte, e quel giovane era il più bello di tutti, così gli disse: — Per trovare mio padre prima di aver terminato la legna, non dovrai fare altro che cercare l'acqua più scura, perché ovunque egli passa il suo corpo smisurato solleva il fango immondo; se farai attenzione lo scoprirai. Ma dovrai iniziare la ricerca ogni giorno all'alba e interromperla a mezzogiorno, perché altrimenti potresti imbatterti in lui al tramonto e allora per te sarebbe la rovina.
— Per questo consiglio sarei pronto a dare la mia vita — disse il giovane, e i suoi compagni che l'avevano seguito a terra lo acclamarono. — Ora vinceremo sicuramente l'orco.
A sentire tali parole il volto della principessa si rabbuiò ulteriormente. — No, non è affatto sicuro, perché lui è un terribile rivale in ogni combattimento. Ma io conosco una stratagemma che ti potrà aiutare. Hai detto che sei ben fornito. Possiedi abbastanza catrame da poter turare le eventuali falle della nave?
— Ne ho molti barili — rispose il giovane.
— Allora, quando combatterai, mettiti in modo che il vento soffi verso di lui. E quando la battaglia sarà al culmine, come succederà poco dopo il suo inizio, ordina ai tuoi uomini di gettare il catrame nelle caldaie. Non posso garantirti che in tal modo vincerai, ma ti sarà di grande aiuto.
Allora tutti i giovani si profusero in ringraziamenti e le Fanciulle Mais, che si erano tenute timidamente in disparte mentre il giovane incarnato dai sogni parlava con la figlia della Notte, acclamarono come si addice alle giovani, senza chiasso ma con gioia sincera.
Quindi i giovani si prepararono alla partenza, accendendo i fuochi nelle grandi caldaie fino a quando lo spettro bianco che spinge avanti le navi da qualsiasi parte soffi il vento fece la sua comparsa. La principessa restò a guardarli da riva e diede loro la sua benedizione.
Ma quando le grandi ruote iniziarono a girare, all'inizio così adagio da apparire quasi ferme, la principessa chiamò il giovane incarnato dai sogni e gli disse: — Forse troverai mio padre. Se lo troverai, può essere che tu lo sconfigga, umiliando la sua forza. Tuttavia, anche in tal caso potrebbe essere difficile per voi ritrovare la strada che conduce al mare, perché i canali dell'isola sono incredibilmente tortuosi. Un modo esiste. Leva la pelle dalla punta dell'indice destro di mio padre. Vedrai mille linee aggrovigliate. Non ti scoraggiare e studiala con attenzione, perché quella è la mappa che ha usato per costruire i canali, allo scopo di tenerla sempre con sé.
Parte quarta — La battaglia con l'orco
Indirizzarono la prua verso l'entroterra e, come aveva predetto la principessa, ben presto il canale si divise, quindi si divise ancora, fino a formare mille canali biforcati e diecimila isolette. Quando l'ombra dell'albero maestro si ridusse a un cappello, il giovane incarnato dai sogni ordinò di gettare le ancore e di coprire i fuochi; aspettarono per tutto il lungo pomeriggio, oliando i cannoni e preparando la polvere e tutto quanto potesse servire nella battaglia più violenta.
Infine arrivò la Notte e i giovani la videro passare da un'isoletta all'altra circondata dai pipistrelli e con i terribili lupi come seguito. Non pareva più lontana di una bordata, eppure tutti notarono che non passava davanti a Espero e nemmeno a Sirio: erano quelle stelle a passare davanti a lei. Per un unico istante volse il volto verso di loro e nessuno riuscì a capire che cosa significasse il suo sguardo. Tutti invece si chiesero se veramente l'orco l'avesse presa contro la sua volontà, come aveva detto la figlia, e in tal caso se lei avesse superato il risentimento che poteva aver creduto di provare.
Alle prime luci dell'alba squillò la tromba e i fuochi nascosti furono riattizzati e alimentati di nuovo combustibile; ma quando la brezza dell'alba iniziò a spirare favorevole nel canale che stavano percorrendo, il giovane ordinò di alzare tutte le vele prima che le grandi ruote potessero iniziare a girare. E quando lo spettro bianco si innalzò, la nave procedette a velocità doppia.
Il canale si addentrava nell'isola per molte leghe, non in linea retta ma quasi, al punto che non fu necessario ammainare le vele e nemmeno orientarle. Incrociarono cento altri canali e ogni volta che ne incontravano uno i giovani studiavano l'acqua, ma la vedevano sempre trasparente come il cristallo. Per raccontare tutte le cose strane che videro su quelle isolette occorrerebbero dodici storie lunghe quanto questa: donne che sorgevano come fiori da lunghi steli si allungavano verso la nave e baciando i giovani cercavano di macchiare i loro visi con il polline delle guance; uomini che il vino aveva ucciso da lungo tempo giacevano vicino alle fonti del vino e ancora ne attingevano, troppo ebbri per comprendere che la loro vita era terminata; bestie che avrebbero potuto costituire dei presagi per il futuro, con le membra distorte e il pelo di colori mai visti, aspettavano battaglie, terremoti e assassinii dei re.
Finalmente il giovane che aveva le funzioni di secondo sulla nave si accostò al compagno incarnato dai sogni, al timone, e disse: — Siamo penetrati molto dentro questo canale e il sole, che non era ancora apparso quando abbiamo spiegato le vele, si sta approssimando allo zenit. Seguendo il suo corso abbiamo incontrato altri mille canali e in nessuno abbiamo trovato la minima traccia dell'orco. Non è probabile che abbiamo scelto il percorso sbagliato? Non sarebbe più saggio tornare indietro subito e provarne un altro?
Allora il giovane rispose: — Proprio in questo momento stiamo superando un canale a tribordo. Guarda e dimmi se le sue acque sono più offuscate delle nostre.
Il secondo obbedì e rispose: — No, sono più terse.
— Ecco, guarda, a babordo si apre un altro canale. A quale profondità riesci a vedere?
Il secondo aspettò fino a quando la nave fu di fronte al canale in questione e poi rispose: — Fino a vedere il fondo. Scorgo il relitto di una nave appartenente a un lontano passato, a numerose braccia dalla superficie.
— E riesci a vedere alla stessa profondità anche nel canale che stiamo percorrendo?
Allora il secondo guardò le acque che stavano solcando, divenute nere come l'inchiostro; persino gli spruzzi sollevati dalle ruote erano neri come scarafaggi o corvi. Capì immediatamente, e urlò a tutti i compagni di tenersi pronti ai cannoni: non poteva dir loro di prepararli, perché erano già pronti da molto tempo.
Dinnanzi a loro si ergeva un'isoletta più alta di tutte le altre, coronata da grandi piante scure; lì il canale faceva una leggera curva, così che il vento, fino a quel punto di poppa, era diventato di quarto. Il timoniere fece girare la ruota e l'equipaggio allentò alcune vele e ne serrò altre; la prua della nave aggirò veloce la curva della rupe.
Dinnanzi a loro si trovava una chiglia lunga e stretta, con un unico castello di ferro nel mezzo e un solo cannone, più grande dei loro, che sporgeva dall'unica apertura.
Il giovane incarnato dai sogni aprì le labbra per gridare l'ordine di sparare. Prima di riuscire a pronunciare quelle parole il grande cannone del loro nemico tuonò, in un modo diverso dal tuono e dagli altri suoni conosciuti agli orecchi umani; pareva piuttosto di trovarsi in un'alta torre di pietra crollata in un istante tutto intorno.
E la palla colpì la culatta del primo cannone della batteria di tribordo, frantumandola e rompendosi a sua volta, in modo che i frammenti piovvero sulla nave come foglie scure portate da un forte vento e uccisero molti giovani.
Allora il timoniere, senza aspettare ulteriori ordini, fece virare la nave in maniera che la batteria di babordo puntasse contro l'avversario, e ogni cannone sparò secondo la volontà di chi lo puntava, come i lupi che ululano nella luna. I proiettili volarono intorno al castello del nemico e alcuni centrarono il bersaglio, facendo risuonare rintocchi funebri in onore di quanti erano morti un momento prima. Alcuni caddero in acqua davanti allo scafo mentre altri ancora colpirono il ponte (anch'esso di ferro) e volarono in cielo stridendo.
A quel punto l'unico cannone del loro nemico sparò nuovamente.
E continuò così, per istanti che parvero anni. Finalmente il giovane ricordò il consiglio della principessa, la figlia della Notte: ma il vento, per quanto forte, spirava quasi a poppa della nave e per fare in modo che soffiasse da loro verso il nemico, come la principessa aveva detto, per un lungo momento nessun cannone avrebbe potuto sparare, a parte quelli di prua. Ancora, quando fosse stato possibile puntare nuovamente una batteria, si sarebbe dovuta usare quella di tribordo, nella quale un cannone era andato perduto e molti uomini erano morti.
Ma il giovane pensò che stavano combattendo come avevano fatto prima di loro centinaia d'altri, che erano tutti morti, le cui navi erano affondate e le cui ossa erano sparse nelle miriadi di canali intricati sulla faccia dell'isola dell'orco. Diede un ordine al timoniere, ma non ebbe risposta, perché il timoniere era morto e la ruota che egli aveva tenuto in quel momento teneva lui. Il giovane incarnato dai sogni afferrò il timone e offrì al nemico la stretta prua della nave. Così facendo dimostrò che le tre sorelle favoriscono gli audaci, perché il colpo seguente del nemico, che avrebbe potuto annientare la nave da prua a poppa, passò a babordo a un remo di distanza, e quello successivo alla distanza di una barca.
Il nemico, che fino a quell'istante era rimasto immobile e non aveva cercato né di scappare né di avvicinarsi, virò. Notando che stava cercando di allontanarsi, l'equipaggio innalzò un grido, come se avesse già in pugno la vittoria. Ma, incredibile a vedersi, l'unico castello che fino a quel momento tutti avevano creduto fisso, si voltò dall'altra parte e il grande cannone, più grande dei loro, continuò a tenerli sotto controllo.
Un istante dopo un proiettile colpì il centro della nave, strappando via dal suo supporto un cannone della batteria di tribordo, come un ubriaco potrebbe strappare un bambino dalla culla, e mandandolo a schiantarsi sul ponte, così che distrusse tutto quello che trovava sul suo percorso. Quindi i cannoni della batteria, quelli rimasti, proruppero in un coro di fuoco e di ferro. E dal momento che la distanza si era ridotta della metà (o forse semplicemente perché il loro nemico, mostrando la propria paura, si era indebolito nella sua essenza), la loro bordata non si limitò a colpire il castello con risonante clangore, ma causò un urto simile a quello che produrrebbe, rompendosi, la campana che annuncerà la fine del mondo; crepe irregolari iniziarono a mostrarsi nel nero oleoso del ferro.
Allora il giovane chiamò attraverso il boccaporto quelli che erano obbedientemente rimasti in sala macchine ad alimentare le caldaie con i tronchi d'albero e gli ordinò di buttare del catrame nelle fiamme, come aveva detto la principessa. In un primo tempo ebbe paura che fossero tutti morti, quindi che il suo ordine fosse stato coperto dal frastuono della battaglia. Ma quando un'ombra cadde sopra l'acqua rischiarata dal sole che si stendeva fra lui e il nemico, sollevò lo sguardo.
Un tempo, si dice, una bambina lacera, figlia di un pescatore, trovò sulla sabbia una bottiglia tappata e, rompendo il sigillo e levando il tappo, diventò regina di tutto, da polo a polo. Nello stesso modo, sembrò, un essere elementare in possesso della forza della creazione emerse dagli alti fumaioli della nave, rotolando con gioia oscura e accrescendosi velocemente, con la rapidità del vento.
E il vento giunse, e lo afferrò con le sue innumerevoli mani e lo portò come una massa compatta contro il nemico. Anche quando non riuscirono più a vedere niente — né lo scafo lungo e scuro con il ponte di ferro, né l'unico cannone la cui bocca aveva vomitato morte per tutti loro — non persero nemmeno un momento, ma si gettarono sulle batterie e spararono alla cieca. Di tanto in tanto sentivano il cannone del loro nemico sparare a sua volta, ma non scorgevano neppure un lampo e non sapevano dove quei proiettili andassero a finire.
È probabile che ancora oggi non abbiano colpito niente e girino intorno al mondo in cerca di un bersaglio.
I giovani spararono fino a quando le canne luccicarono come lingotti appena usciti dal crogiolo. Allora il fumo diminuì e coloro che si trovavano in sala macchine gridarono attraverso il boccaporto che il catrame era terminato; il giovane incarnato dai sogni ordinò di cessare il fuoco e gli uomini che avevano sparato con i cannoni si accasciarono sul ponte come cadaveri, troppo sfiniti persino per domandare un sorso d'acqua.
La nube nera si dissolse. Non come la nebbia che si dilegua al sole, ma come un esercito forte che si disperde dinnanzi a cariche ripetute, cedendo in un punto, resistendo accanitamente in un altro e radunando ancora un gruppo di combattenti quando pare che tutto sia ormai finito.
A quel punto cercarono inutilmente, sulle onde diventate trasparenti, il loro nemico. Non riuscirono a vedere nulla: né il suo scafo, né il suo castello, né il suo cannone, nemmeno una tavola o un pennone.
Adagio, con cautela come se temessero un nemico invisibile, avanzarono fino al punto in cui prima il nemico era all'ancora e trovarono gli alberi spezzati e il terreno dissestato dell'isoletta che stava dietro, sulla quale i loro colpi avevano esaurito l'energia. Quando giunsero nel luogo in cui si trovava il lungo scafo di ferro, il giovane incarnato dai sogni ordinò di invertire il movimento delle grandi ruote e finalmente si fermarono, restando immobili come aveva fatto il loro avversario. Poi si avvicinò al parapetto e guardò in basso, con un'espressione tale che nessuno, neppure il più coraggioso, osò guardarlo.
Quando infine rialzò gli occhi, il suo viso era fermo e scuro; senza rivolgere la parola a nessuno si portò nella sua cabina e chiuse la porta.
Allora il secondo ordinò di girare la nave per fare ritorno al candido padiglione della principessa e di curare le ferite, di mettere in funzione le pompe e di iniziare le riparazioni necessarie. Ma tenne a bordo i morti, per poterli seppellire in alto mare.
Parte quinta — La morte dello studioso
È probabile che il canale non fosse diritto come avevano creduto. Oppure, senza rendersene conto, avevano perso l'orientamento durante la battaglia. Oppure (come sostenevano alcuni) i canali si attorcigliavano come vermi quando nessuno li guardava. Qualsiasi fosse la verità, navigarono fino al tramonto a vapore — il vento era calato — e alle ultime luci della giornata si accorsero che stavano passando in mezzo a isolette sconosciute.
Restarono all'ancora per tutta la notte. Quando giunse il mattino, il secondo chiamò i compagni del cui consiglio si fidava di più; ma nessuno seppe suggerire altro che domandare al giovane incarnato dai sogni (sebbene fossero restii a farlo) oppure andare avanti fino a trovare le acque aperte e il padiglione della principessa.
Decisero di andare avanti e lo fecero per tutto il giorno, sforzandosi di mantenere una rotta diritta, ma furono obbligati a procedere in maniera tortuosa dalle numerose svolte dei canali. E quando sopraggiunse nuovamente la notte, non erano in una posizione più vantaggiosa.
Il mattino del terzo giorno il giovane incarnato dai sogni uscì dalla sua cabina e iniziò a camminare avanti e indietro sul ponte come era solito fare, osservando le riparazioni e domandando notizie ai feriti. Allora il secondo e i suoi consiglieri lo avvicinarono, gli spiegarono quello che avevano fatto e gli chiesero come fare per ritrovare le acque aperte, per seppellire i loro morti e fare ritorno alle loro case nella città dei maghi.
Egli levò gli occhi verso la volta del firmamento. Alcuni credettero che stesse pregando, altri che cercasse di tenere a freno l'ira nei loro confronti, altri ancora che fosse semplicemente in cerca di un'ispirazione. Continuò a fissare il cielo tanto a lungo che essi si spaventarono, come quando aveva guardato l'acqua, e alcuni si allontanarono in maniera furtiva. Poi il giovane rispose loro: — Guardate! Non vedete gli uccelli marini? Stanno accorrendo da ogni parte del cielo. Seguiteli.
Per quasi tutta la mattina seguirono gli uccelli, per quanto i canali tortuosi lo permettevano. Finalmente li videro volteggiare e tuffarsi nell'acqua, più avanti, in modo che le loro ali bianche e le teste d'ebano sembravano una bassa nube, chiara all'esterno ma tempestosa nel mezzo. Allora il giovane incarnato dai sogni ordinò ai compagni di caricare i cannoni solo con la polvere e di sparare; a quel boato tutti gli uccelli marini presero il volo gridando e stridendo. E là dove prima stavano gli uccelli l'equipaggio vide galleggiare un'enorme carogna, che sembrava appartenere a una bestia della terraferma perché possedeva una testa e quattro zampe. Ma era molto più grande di diversi elefanti messi insieme.
Quando si furono avvicinati, il giovane ordinò di calare in acqua una barca e quando vi fu salito i suoi compagni notarono che aveva infilato nella cintura un grande alfange la cui lama rifletteva la luce del sole. Il giovane lavorò a lungo sulla carogna e quando fece ritorno a bordo portava con sé una mappa, la più grande che gli altri avessero mai visto, tracciata su una pelle non conciata.
Prima di sera raggiunsero il padiglione della principessa. Tutti aspettarono a bordo mentre sua madre la andava a trovare e quando finalmente quella donna terribile se ne fu andata tutti coloro che erano in grado di camminare scesero a terra; le Fanciulle Mais si affollarono intorno a ioro, cento fanciulle per ogni giovane, e il giovane incarnato dai sogni prese fra le braccia la figlia della Notte e aprì le danze. Nessuno dimenticò mai quella notte.
La rugiada li trovò stesi fra le piante nel giardino della principessa, semisepolti tra i fiori. Per un po' di tempo continuarono a dormire, ma quando il pomeriggio allungò le ombre degli alberi si svegliarono. Allora la principessa si congedò dall'isola e giurò che, per quanto fosse pronta a visitare ogni territorio percorso dalla madre, in quel luogo non avrebbe più fatto ritorno; e le Fanciulle Mais ripeterono il suo giuramento. Erano troppo numerose, forse, per poter salire tutte sulla nave; ma riuscirono ugualmente ad andare a bordo e tutti i ponti verdeggiavano delle loro vesti e brillavano dell'oro dei loro capelli. Vissero infinite avventure nel viaggio di ritorno verso la città dei maghi. Si potrebbe riferire come gettarono in mare i loro morti, onorandoli con la preghiera, e tuttavia li rividero più tardi, durante la notte, fra le sartie; o come alcune Fanciulle Mais sposarono quei principi che, avendo trascorsi molti anni in preda a incantesimi al punto da non voler più lasciare quel genere di vita, edificano palazzi sulle ninfee e difficilmente si lasciano vedere dagli uomini.
Ma per tutte quelle cose non c'è posto in questo racconto. Basti dire che, quando raggiunsero la rupe sulla cui sommità sorge la città dei maghi, lo studioso che aveva donato la carne al giovane dei sogni era sui bastioni a guardare il mare in attesa del loro ritorno. Quando vide le vele nere, oscurate dal catrame che era stato bruciato per accecare il nemico, pensò che fossero state annerite in segno di lutto per la morte del figlio e si gettò nel burrone trovando la morte. Perché nessun uomo può vivere a lungo quando muoiono i suoi sogni.
XVIII
SPECCHI
Mentre leggevo quella sterile storia, di tanto in tanto guardavo Jonas, ma non vedevo mai il minimo barlume di espressione sul suo viso, nonostante fosse sveglio. Quando ebbi finito, dissi: — Non sono sicuro di capire il motivo per cui lo studioso credette che il figlio fosse morto, quando vide le vele nere. La nave che l'orco inviava aveva le vele nere, ma giungeva solo una volta all'anno e per quell'anno era già arrivata.
— Lo so — rispose Jonas. La sua voce aveva un tono asciutto che non avevo mai avvertito.
— Intendi dire che conosci le risposte alle mie domande?
Non rispose, e per un po' rimanemmo in silenzio, io con il libro marrone (che ricordava tanto intensamente Thecla e le sere passate insieme) ancora aperto, Jonas con la schiena appoggiata alla fredda parete della prigione e le mani, quella di metallo e quella di carne, rilasciate sui fianchi come se fossero dimenticate.
Infine una vocina si arrischiò a dire: — Deve essere una storia molto vecchia. — Era la bambina che aveva sollevato il pannello del soffitto per noi.
Ero talmente preoccupato per Jonas che per un istante quell'interruzione mi infastidì, ma Jonas sussurrò: — Sì, è una storia molto vecchia. L'eroe aveva detto al padre che se avesse fallito l'impresa avrebbe fatto ritorno ad Atene con le vele nere. — Non so che cosa volesse dire questo suo commento, credo che fosse generato dal delirio; ma dal momento che fu una delle ultime cose che sentii dire da Jonas, mi sembra giusto riportarlo qui, come ho trascritto la leggenda che lo generò.
Io e la bambina cercammo di convincerlo a parlare ancora, ma lui non ne volle sapere, così finimmo per lasciar perdere. Passai il resto della giornata vicino a lui e dopo un turno di guardia o poco più Hethor (il cui limitato patrimonio intellettuale, come avevo immaginato, era stato ben presto svuotato dai prigionieri) ci raggiunse. Parlai con Lomer e Nicarete e loro fecero in modo che venisse sistemato per la notte dalla parte opposta della stanza.
Qualsiasi cosa possiamo dire, tutti noi talvolta facciamo sogni turbati. A dire il vero, alcuni non dormono quasi, nonostante altri che lo fanno in abbondanza giurino che non lo fanno. Alcuni sono tormentati da sogni ricorrenti e alcuni, pochi e fortunati, fanno di frequente sogni piacevoli. Alcuni sostengono che «prima» avevano il sonno disturbato, ma che poi ne sono «guariti», quasi che la coscienza fosse una malattia, e forse lo è veramente.
Di solito io dormo senza fare sogni memorabili (anche se a volte mi capita, come ben saprà il lettore che mi ha seguito fino a questo punto) e difficilmente mi sveglio prima dell'alba. Ma quella notte il mio sonno fu così diverso dal solito che a volte mi chiedo se si potesse definire un vero sonno. Forse era uno stato diverso che fingeva di essere sonno, come gli alzabo, dopo aver mangiato la carne degli uomini simulano di essere uomini.
Se dipese da cause naturali io lo attribuisco a una combinazione di sfortunate circostanze. Io, che da sempre ero abituato a un lavoro duro e agli esercizi violenti, per l'intero giorno ero rimasto rinchiuso, senza l'uno né gli altri. La leggenda del libro marrone aveva influenzato la mia fantasia, ancor più stimolata dal libro stesso che dal suo legame con Thecla e dalla consapevolezza di essere ormai all'interno della Casa Assoluta, della quale avevo sentito tanto parlare. E soprattutto i miei pensieri erano appesantiti dalla preoccupazione per Jonas e dalla sensazione (che si era fatta più intensa con il passare delle ore) che quel posto costituisse la fine del mio viaggio; che non sarei mai arrivato a Thrax; che non avrei più ritrovato la mia povera Dorcas; che non sarei riuscito a restituire l'Artiglio e non sarei nemmeno riuscito a liberarmene; che l'Increato, di cui il proprietario dell'Artiglio era stato un servitore, avesse stabilito che io, dopo aver visto morire tanti prigionieri, avrei terminato i miei giorni in una prigione.
Dormii — se posso dire di aver dormito — solo un momento. Provai la sensazione di cadere: uno spasimo, l'irrigidirsi impulsivo di una vittima lanciata da un'alta finestra, percorse tutte le mie membra. Quando mi misi a sedere, non riuscii a vedere altro che l'oscurità. Avvertivo il respiro di Jonas; le mie dita mi dissero che era ancora seduto come l'avevo lasciato, con la schiena appoggiata al muro. Mi allungai nuovamente e mi riaddormentai.
O meglio, cercai di riaddormentarmi, e passai in quello stato vago che non è la veglia né il sonno. In altre occasioni l'ho trovato gradevole, ma in quella circostanza non lo era... avevo bisogno di dormire e capivo che non stavo dormendo. Eppure non ero «cosciente» nel senso comune del termine. Udivo voci confuse giungere dal cortile della locanda e capivo, indistintamente, che presto le campane del campanile avrebbero squillato e sarebbe arrivato il giorno. Le mie membra ebbero un sussulto e mi misi a sedere.
Per un istante pensai di aver visto un lampo di fuoco verde; ma non c'era niente. Mi ero coperto con il mantello; lo gettai indietro e nel momento stesso in cui lo feci rammentai che mi trovavo nell'anticamera della Casa Assoluta, che avevo lasciato ormai da tempo la locanda di Saltus, anche se Jonas era ancora sdraiato al mio fianco, riverso, con la mano di carne posata dietro la testa. La macchia chiara che scorgevo era il bianco del suo occhio destro, sebbene il suo respiro fosse quello di una persona addormentata. Io ero troppo assonnato per provare il desiderio di parlare, e comunque ero convinto che non mi avrebbe dato risposta.
Mi sdraiai nuovamente e caddi in preda all'irritazione provocata dal fatto di non riuscire a dormire. Pensai al branco che aveva attraversato Saltus e contai gli animali nella mia mente: centotrentasette. Poi c'erano i soldati che erano saliti cantando dal Gyoll. Il locandiere mi aveva chiesto quanti fossero e io avevo detto un numero a caso, ma non li avevo mai contati fino a quel momento. Il locandiere poteva anche essere una spia.
Il Maestro Palaemon, che ci aveva insegnato tante cose, non ci aveva mai insegnato a dormire: nessun apprendista aveva mai avuto bisogno di impararlo, dopo un'intera giornata trascorsa a fare commissioni e a lavare, pulire e lavorare in cucina. Tutte le notti facevamo chiasso per la metà di un turno di guardia nel nostro stanzone, poi dormivamo come gli abitanti della necropoli fino a quando lui veniva a chiamarci perché ricominciassimo a lucidare i pavimenti e a buttare via i rifiuti.
Sul tavolo che fratello Aybert usa per affettare la carne c'è un ceppo con i coltelli. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette coltelli, tutti con lame più semplici di quelle del Maestro Gurloes. Il manico di uno è privo di una vite; un altro ha il manico un po' annerito perché una volta fratello Aybert l'ha appoggiato sul fornello...
Ero completamente sveglio un'altra volta, o pensavo di esserlo, e non ne sapevo il motivo. Al mio fianco Drotte dormiva profondamente. Chiusi nuovamente gli occhi e cercai di imitarlo.
Trecentonovanta scalini da terra al nostro dormitorio. Quanti altri per raggiungere la camera nella quale pulsavano i cannoni, in cima alla torre? Uno, due, tre, quattro, cinque, sei cannoni. Uno, due, tre livelli di celle usate nella segreta. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto ali su ogni livello. Una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette celle in ogni ala. Una, due, tre sbarre alla finestrella della porta della mia cella.
Mi svegliai di scatto, con una sensazione di freddo, ma il rumore che mi aveva svegliata era semplicemente lo sbattere di una botola in fondo al corridoio. Vicino a me il mio amante Severian dormiva il sonno facile della giovinezza. Mi misi a sedere con l'intenzione di accendere una candela e di guardare per un istante il fresco colorito del suo viso cesellato. Ogni volta che veniva da me, in quel volto traspariva una luminosa scintilla di libertà. Tutte le volte io me ne impossessavo e vi soffiavo sopra stringendola al seno, e tutte le volte si consumava e moriva; qualche volta non moriva e in quei momenti invece di sprofondare ancora di più sotto questo peso di terra e di metallo, salivo attraverso il metallo e la terra fino al vento e al cielo.
O per lo meno, mi dicevo così. Se non era vero, l'ultima gioia che mi restava si trovava comunque in quella scintilla.
Ma quando cercai nel buio la candela non la trovai e i miei occhi, i miei orecchi e persino la pelle del mio volto mi dissero che anche la cella era sparita. C'era una luce tenue... molto tenue, ma non era la luce della candela che illuminava il torturatore nel corridoio, quella che filtrava attraverso le sbarre della porta nella mia cella. La leggera eco mi disse che mi trovavo in uno spazio più grande di cento celle; le guance e la fronte, che si erano logorate per indicarmi la vicinanza delle pareti, lo confermavano.
Mi alzai e mi lisciai la veste, quindi iniziai a camminare come una sonnambula... Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette passi, poi l'odore dei corpi ammassati e dell'aria chiusa mi spiegarono dove mi trovavo. Nell'anticamera! Ebbi un senso di disorientamento. L'Autarca aveva ordinato di portarmi lì mentre dormivo? Gli altri avrebbero trattenuto le fruste, vedendomi? La porta! La porta!
La confusione era tale che per poco non caddi, travolta dal fermento della mia mente.
Mi torsi le mani, ma quelle mani non erano le mie. La mia destra colse una mano troppo grande e troppo forte, e nello stesso istante la mia sinistra avvertì una mano uguale.
Thecla si dileguò come un sogno. O forse dovrei dire che si rimpicciolì e si ridusse a un niente, e scomparve dentro di me fino a quando io fui nuovamente me stesso, quasi da solo.
Comunque l'avevo percepita, la posizione della porta, la porta nascosta dalla quale i giovani esultanti entravano di notte con le fruste energizzate fatte di fili metallici intrecciati. Era rimasta impressa nella mia mente. Insieme a tutto quello che avevo visto e pensato. Avrei potuto scappare il giorno seguente. O in quello stesso momento.